C'era una volta
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I FIORI DELLA PICCOLA IDA  
"I miei poveri fiori sono tutti morti!" disse la piccola Ida. "Erano così belli ieri sera, e ora sono tutti appassiti! Perché è successo?" chiese allo studente, che sedeva sul divano. Lei gli era molto affezionata, perché sapeva raccontare le storie più belle e sapeva ritagliare figurine di carta molto divertenti: cuori che contenevano damine che danzavano, fiori e grandi castelli, le cui porte si potevano aprire; era proprio uno studente simpatico! "Perché i fiori sono così brutti oggi?" gli chiese di nuovo, e gli mostrò un mazzo che era tutto appassito.
"Oh, sai che cosa hanno?" disse lo studente. "I fiori sono stati a ballare questa notte e per questo hanno la testa che ciondola".
"Ma no! I fiori non possono ballare" rispose la piccola Ida.
"Come no!" replicò lo studente. "Quando viene buio e noi tutti dormiamo, loro si mettono a saltare allegramente qui intorno, quasi ogni notte ballano".
"E i bambini non possono partecipare al ballo?".
"Sì: le piccole margherite e i mughetti!".
"E dove ballano i fiori più carini?" chiese la piccola Ida.
"Non sei stata già più volte fuori città in quel grande castello, dove il re abita d'estate, dove c'è un bel giardino con moltissimi fiori?
Hai anche visto i cigni nuotarti incontro quando volevi dar loro le briciole di pane. Quello, sì, che è un ballo, credimi!".
"Sono stata in quel giardino proprio ieri con la mamma" disse Ida, "ma tutte le foglie erano cadute dagli alberi e non c'era più neppure un fiore. Dove sono finiti? In estate ne ho visti tanti!".
"Sono entrati nel castello. Devi sapere che non appena il re e la sua corte rientrano in città, tutti i fiori corrono nel castello per divertirsi. Dovresti vedere! Le due rose più belle si siedono sul trono e fanno il re e la regina. Tutte le rosse creste di gallo si mettono di lato e si inchinano, loro sono i gentiluomini di corte. Poi arrivano tutti i fiori più belli e ballano, le violette fanno finta di essere allievi ufficiali di marina, e ballano coi giacinti e coi fiori di croco, che chiamano signorine! I tulipani e i grandi gigli gialli, che sono delle vecchie signore, stanno attente che si balli bene e che tutto vada per il meglio".
"Ma non c'è nessuno che fa qualcosa ai fiori che ballano nel castello del re?" chiese la piccola Ida.
"Nessuno lo sa!" ribatté lo studente. "A volte di notte arriva il vecchio guardiano, che deve controllare il castello; ha un gran mucchio di chiavi e non appena i fiori sentono il rumore delle chiavi, si azzittiscono, si nascondono dietro le lunghe tende e affacciano la testa. 'Sento bene dal profumo che qui dentro ci sono dei fiori!' dice il vecchio guardiano, ma non riesce a vederli".
"E' divertente!" disse la piccola Ida e batté le mani. "Ma neppure io li potrei vedere?".
"Sì; ricordati, quando andrai là di nuovo, di guardare dentro la finestra e sicuramente li vedrai. Io ho guardato oggi e c'era un lungo narciso giallo sdraiato sul divano che si stiracchiava come se fosse stato una dama di corte".
"Anche i fiori del giardino botanico possono andare fin là? Possono camminare così a lungo?".
"Certo che possono. Quando vogliono, possono anche volare. Non hai mai visto le belle farfalle, rosse, gialle e bianche, che sembrano proprio dei fiori? E lo erano; sono saltate dal gambo verso l'alto e hanno agitato i petali come se fossero state piccole ali, e così hanno cominciato a volare; e dato che si comportarono bene, ottennero il permesso di volare anche di giorno, non dovettero più tornare a casa e rimettersi sul gambo, e così i petali divennero alla fine delle vere ali. E tu stessa l'hai visto! Può anche essere che i fiori del giardino botanico non siano mai stati nel castello del re, altrimenti saprebbero quanto è divertente là di notte. Per questo ora ti dico qualcosa che renderà molto sorpreso il professore di botanica che abita qui accanto. Tu lo conosci, vero? Quando vai nel suo giardino devi raccontare a uno dei suoi fiori che c'è un grande ballo al castello, così lui lo dirà a tutti gli altri e se ne partiranno; e quando il professore entrerà nel giardino non ci sarà più nessun fiore e lui non saprà dove sono finiti".
"Ma come farà il fiore a raccontarlo agli altri? I fiori non sanno parlare!".
"No, certo che non sanno parlare" rispose lo studente, "ma usano la mimica. Avrai notato che quando c'è un po' di vento, i fiori fanno cenni e muovono le foglie; si capiscono come se parlassero".
"E il professore non capisce la mimica?".
"Sì, senza dubbio! Una mattina era entrato nel suo giardino e aveva visto una grande ortica parlare con i movimenti delle foglie a un bel garofano rosso; gli diceva: 'Sei così carino, e io ti voglio molto bene!'; ma questo al professore non piaceva, così picchiò subito l'ortica sulle foglie, e in quel modo si fece male e da quel momento non osò più toccare un'ortica".
"E' divertente!" esclamò la piccola Ida, e rise.
"Come si fa a raccontare certe cose ai bambini!" disse il noioso consigliere che era venuto a far visita e che si era seduto sul divano; non poteva sopportare lo studente e borbottava sempre quando lo vedeva ritagliare quelle strane figure divertenti: una volta un uomo che penzolava dalla forca e aveva un cuore in mano - era un ladro di cuori - un'altra volta una vecchia strega che cavalcava una scopa e aveva il marito sul naso; tutto questo non piaceva al consigliere che diceva sempre: 'Che gusto mettere queste sciocchezze in testa ai bambini. Tu e la tua stupida fantasia!".
La piccola Ida pensava invece che era così divertente quello che lo studente raccontava dei suoi fiori, e ci pensò a lungo. Se i fiori avevano la testa piegata perché erano stanchi per aver ballato tutta la notte, erano certamente malati. Così li prese e li portò da tutti i suoi giocattoli, sistemati su un grazioso tavolino col cassetto pieno di cianfrusaglie. Nel letto della bambola c'era la bambola, Sofia, che dormiva, ma la piccola Ida le disse: "Adesso devi alzarti, Sofia, e accontentarti di stare nel cassetto per questa notte; i poveri fiori sono malati e devono sdraiarsi nel tuo letto, così forse guariranno", e sollevò la bambola che la guardava di traverso ma non disse una parola, perché era molto arrabbiata di non poter stare nel suo letto.
Poi Ida mise i fiori nel lettino della bambola, li coprì per bene con la coperta e disse che dovevano stare tranquilli: avrebbe preparato del tè per loro, così sarebbero guariti e si sarebbero alzati di nuovo l'indomani. Poi tirò le tende vicino al lettino per evitare che il sole li disturbasse.
Per tutta la sera non poté fare a meno di pensare a quello che lo studente le aveva raccontato, e quando lei stessa dovette andare a letto, guardò prima dietro le tendine della finestra dove c'erano i bei fiori della sua mamma, i giacinti e i tulipani, e sussurrò piano piano: "So bene che dovete andare al ballo questa notte"; i fiori fecero finta di niente, non mossero una foglia, ma Ida sapeva bene quello che diceva.
Una volta a letto pensò a lungo a quanto sarebbe stato bello vedere i bei fiori danzare al castello del re. "Chissà se i miei fiori sono veramente stati là?". E così si addormentò. A metà notte si svegliò di nuovo; aveva sognato i fiori e lo studente con cui il consigliere brontolava dicendo che voleva mettere tutte quelle sciocchezze in testa alla bambina. C'era silenzio nella camera da letto dove si trovava Ida; la lampada per la notte bruciava laggiù sul tavolo e i suoi genitori dormivano.
"Chissà se i miei fiori sono ancora nel letto di Sofia!" si chiese, " mi piacerebbe saperlo". Si alzò a sedere e guardò verso la porta, che era socchiusa: là nella stanza c'erano i fiori e tutti i suoi giocattoli. Tese l'orecchio e le sembrò di sentire qualcuno che suonava il pianoforte in quella stanza, ma così piano e così bene che non l'aveva mai sentito prima.
"Certamente tutti i fiori stanno ballando là dentro" disse. "Oh, come mi piacerebbe vederli!" ma non osava alzarsi, perché avrebbe svegliato i suoi genitori. "Se solo venissero qui loro" pensò, ma i fiori non vennero e la musica continuava, ed era tanto bella che lei non poté più trattenersi; scivolò fuori dal suo lettino e andò piano piano fino alla porta e da lì guardò nella stanza. Oh, che belle cose vide!
Non c'era luce là dentro, ma ugualmente la stanza era luminosa, la luna brillava attraverso la finestra fino in mezzo al pavimento! Tutti i giacinti e i tulipani erano allineati in due file sul pavimento, non ce n'erano più alla finestra, i vasi erano tutti vuoti. Sul pavimento i fiori ballavano girando tra di loro, facevano catene ordinate e si tenevano per le lunghe foglie verdi, quando ruotavano.
Al pianoforte sedeva un grande giglio giallo, che Ida di sicuro aveva visto quell'estate perché ricordava bene che lo studente aveva detto:
"Oh, come assomiglia alla signorina Line!", ma tutti lo avevano preso in giro; ora invece il lungo fiore giallo assomigliava alla signorina, e si muoveva allo stesso modo mentre suonava, piegava il viso allungato prima da una parte e poi dall'altra, segnando il tempo della musica. Nessuno si accorse della piccola Ida. Lei vide poi un grande croco blu saltare sul tavolo dei giocattoli e andare al letto della bambola e tirare le tendine; lì c'erano i fiori malati, ma si alzarono subito e fecero come gli altri, come se volessero danzare pure loro.
Il vecchio bruciafumo, quello con il labbro inferiore rotto, si alzò e si inchinò davanti ai bei fiori, che non sembravano affatto malati; anzi saltarono giù insieme agli altri e avevano l'aria di divertirsi.
Le sembrò poi che qualcuno fosse caduto giù dal tavolo, e guardò in quella direzione: era il frustino di carnevale che era saltato giù, pensando di dover stare insieme ai fiori. Era molto grazioso e proprio sopra aveva un bambolotto di cera che portava un largo cappello in testa, giusto come quello del consigliere; il frustino di carnevale saltellava sulle sue tre gambe di legno rosse in mezzo ai fiori e batteva forte i piedi, perché si ballava la mazurca, e quella danza gli altri fiori non la potevano fare: erano troppo leggeri e non potevano battere i piedi.
Il bambolotto di cera sul frustino di carnevale divenne sempre più lungo e grande, e si librò sopra i fiori di carta e urlò a voce ben alta: "Come si fa a far credere certe cose ai bambini! Tu e la tua stupida fantasia!" e in quel momento il bambolotto di cera era tale e quale il consigliere, con quel largo cappello, era giallo e burbero come lui, ma i fiori di carta lo colpirono e tornò a essere un minuscolo bambolotto di cera. Era proprio divertente! La piccola Ida non poté fare a meno di ridere.
Il frustino di carnevale continuò a danzare e il consigliere non poteva non danzare con lui; che si facesse ancora lungo lungo o restasse il bambolotto di cera con l'enorme cappello, non serviva proprio a niente. Allora furono gli altri fiori a chiedere che potesse smettere, soprattutto quelli che avevano riposato nel letto della bambola, e così il frustino di carnevale si fermò. Contemporaneamente si sentì bussare forte nel cassetto, dove la bambola di Ida, Sofia, si trovava con molti altri giocattoli; il bruciafumo corse fino al bordo della tavola, si affacciò, appoggiato sulla pancia, e aprì un pochino il cassetto. Sofia si alzò in piedi e guardò intorno meravigliata.
"Qui c'è un ballo!" disse, "perché nessuno me l'ha detto?".
"Vuoi ballare con me?" chiese il bruciafumo.
"Sì, sei proprio il tipo giusto con cui ballare!" gli disse, e gli voltò le spalle. Poi sedette sul cassetto e pensò che uno dei fiori sarebbe certo andato a invitarla, ma nessuno andò; allora tossì un po': "uhm, uhm, uhm!", ma anche con questo non andò nessuno. Il bruciafumo se la ballava da solo e non era affatto male!
Dato che nessuno dei fiori sembrava guardarla, Sofia si lasciò cadere dal cassetto giù nel pavimento, così ci fu una gran confusione; tutti i fiori corsero lì e la circondarono e le chiesero se si era fatta male, e tutti i fiori di Ida la ringraziarono per il comodo letto e si occuparono di lei; la misero in mezzo al pavimento, dove la luna splendeva, e danzarono insieme a lei, e tutti gli altri fiori le fecero cerchio intorno: ora Sofia si divertiva proprio! e disse che potevano tenere ancora il suo letto, perché a lei non costava nulla stare nel cassetto.
Ma i fiori risposero: "Ti ringraziamo molto, ma non vivremo a lungo; domani saremo morti: riferisci alla piccola Ida che ci seppellisca nel giardino, dove giace il canarino, così cresceremo di nuovo per l'estate e saremo ancora più belli!".
"No, non potete morire!" disse Sofia e baciò i fiori; nello stesso istante si aprì la porta del salone ed entrò danzando una gran quantità di fiori bellissimi; Ida non immaginava da dove venissero.
Erano certo tutti i fiori del castello del re. Per prime giunsero due belle rose, che portavano piccole corone d'oro in testa; erano un re e una regina, poi seguivano le più belle violacciocche e i garofani più graziosi, e salutavano da ogni parte. Avevano con loro anche un'orchestrina, grandi papaveri e peonie soffiavano nei baccelli dei piselli ed erano tutti rossi in viso, i giacinti azzurri e i bianchi bucaneve suonavano come se avessero avuto addosso delle campanelline.
Facevano una bella musica. Poi giunsero molti altri fiori e ballarono tutti insieme, le violette azzurre e le margheritine rosse, le margherite e i mughetti. E tutti si baciavano tra loro, erano così carini da vedere!
Alla fine si augurarono la buona notte e anche la piccola Ida se ne tornò nel suo lettino, dove sognò tutto quello che aveva visto.
Quando il mattino dopo si alzò, andò subito al tavolino per vedere se i fiori erano ancora lì, tirò le tendine del letto e, sì, c'erano tutti, ma erano completamente appassiti, molto più che il giorno prima. Sofia era nel cassetto, dove l'aveva messa lei, e appariva molto assonnata.
"Ti ricordi che cosa mi dovevi dire?" chiese la piccola Ida, ma Sofia aveva l'aria molto stupida e non disse una parola.
"Non sei affatto buona" disse Ida, "eppure hanno ballato tutti con te". Poi prese una scatoletta di cartone con disegnati sopra dei begli uccellini, la aprì e vi mise dentro i fiori morti. "Questa sarà la vostra graziosa bara" disse, "e quando i miei cugini norvegesi saranno qui, vi seppelliremo fuori in giardino, così potrete crescere per l'estate e diventare ancora più belli".
I cugini norvegesi erano due ragazzi in gamba, si chiamavano uno Giona e l'altro Adolfo; avevano appena avuto in regalo dal padre due nuovi archi che avevano portato per mostrarli a Ida. Lei raccontò dei poveri fiori appassiti, e così poté seppellirli. I due ragazzi erano davanti, con gli archi sulle spalle, e la piccola Ida li seguiva con i fiori morti nella graziosa scatola; nel giardino venne scavata una piccola fossa; Ida prima baciò i fiori, poi li posò con la scatola nella terra e Adolfo e Giona tirarono con l'arco, non avendo né fucili né cannoni.
 
 
 
LA SIRENETTA  
In mezzo al mare l'acqua è pura come i petali dei più bei fiordalisi e trasparente come il più puro cristallo; ma è molto profonda, così profonda che un'anfora non potrebbe raggiungere il fondo; bisognerebbe mettere molti campanili, uno sull'altro, per arrivare dal fondo fino alla superficie. Laggiù abitano le genti del mare.
Non bisogna credere che ci sia solo sabbia bianca, no! Crescono alberi stranissimi, e piante con gli steli e i petali così sottili che si muovono al minimo movimento dell'acqua, come fossero esseri viventi.
Tutti i pesci, grandi e piccoli, nuotano tra i rami, proprio come fanno gli uccelli nell'aria. Nel punto più profondo si trova il castello del re del mare. Le mura sono di corallo e le alte finestre ad arco sono fatte con ambra chiarissima, il tetto è formato da conchiglie che si aprono e si chiudono secondo il movimento dell'acqua; sono proprio belle, perché contengono perle meravigliose; una sola basterebbe alla corona di una regina.
Il re del mare era vedovo da molti anni, ma la sua vecchia madre governava la casa, una donna intelligente, molto orgogliosa della sua nobiltà; e per questo aveva dodici ostriche sulla coda, quando le altre persone potevano averne solo sei. Comunque aveva grandi meriti, soprattutto perché voleva molto bene alle piccole principesse del mare, le sue nipotine. Erano sei graziose fanciulle, ma la più giovane era la più bella di tutte, dalla pelle chiara e delicata come un petalo di rosa, gli occhi azzurri come un lago profondo; ma come tutte le altre non aveva piedi, il corpo terminava con una coda di pesce.
Per tutto il giorno potevano giocare nel castello, nei grandi saloni, dove fiori viventi crescevano alle pareti. Le grandi finestre di ambra venivano aperte e i pesci potevano nuotare dentro, proprio come fanno le rondini quando apriamo le finestre, ma i pesci nuotavano vicino alle principessine, mangiavano dalle loro manine e si lasciavano accarezzare.
Fuori dal castello c'era un grande giardino con alberi color rosso fuoco e blu scuro; i frutti brillavano come oro e i fiori come le fiamme di fuoco, poiché steli e foglie si agitavano continuamente. La terra stessa era costituita da sabbia finissima, ma azzurra come lo zolfo ardente. E una strana luce azzurra avvolgeva tutto; si poteva quasi credere di trovarsi nell'aria e di vedere il cielo da ogni parte, invece di essere sul fondo del mare. Quando il mare era calmo si poteva vedere il sole: sembrava un fiore color porpora dal cui calice sgorgava tutta la luce.
Ogni principessa aveva una piccola aiuola nel giardino, in cui poteva piantare i fiori che voleva; una di loro diede alla sua aiuola la forma di una balena; un'altra preferì che assomigliasse a una sirenetta; la più giovane la fece rotonda come il sole e vi mise solo fiori rossi come lui. Era una bambina strana, molto tranquilla e pensierosa; le altre sorelle decoravano le aiuole con le cose più bizzarre che avevano trovato tra le navi affondate, lei invece, oltre ai fiori rossi che assomigliavano al sole, volle avere solo una bella statua di marmo, raffigurante un giovane scolpito in una pietra bianca e trasparente, che era arrivata fin lì dopo qualche naufragio. Vicino alla statua piantò un salice piangente di color rossiccio, che crebbe splendidamente ripiegando i suoi rami sul giovane fino a raggiungere il suolo di sabbia azzurra, dove l'ombra diventava viola e si muoveva come i rami stessi: sembrava così che i rami e le radici si baciassero con dolcezza.
Non c'era per lei gioia più grande che sentir parlare del mondo degli uomini sopra di loro; la vecchia nonna dovette raccontare tutto quanto sapeva delle navi e delle città, degli uomini e degli animali; soprattutto la colpiva in modo particolare il fatto che i fiori sulla terra profumassero (naturalmente non profumavano in fondo al mare!) e che i boschi fossero verdi e che i pesci che si vedevano tra i rami potessero cantare così bene che era un piacere ascoltarli; erano gli uccellini, ma la vecchia nonna li chiamava pesci, per farsi capire da loro che non avevano mai visto un uccello.
"Quando compirete quindici anni" disse la nonna, "avrete il permesso di affacciarvi fuori dal mare, sedervi al chiaro di luna sulle rocce e osservare le grosse navi che navigano; vedrete anche i boschi e le città". L'anno dopo la sorella più grande avrebbe compiuto quindici anni, ma le altre... già, avevano tutte un anno di differenza tra loro, e la più giovane doveva aspettare cinque anni prima di poter risalire il mare e vedere come viviamo noi uomini. Tra sorelle si promisero che si sarebbero raccontate tutte le cose più significative che avrebbero visto durante il loro primo viaggio: la nonna non raccontava abbastanza, e c'era tanto che loro volevano sapere.
Nessuno però lo voleva quanto la più giovane, proprio lei che doveva aspettare più a lungo e che era così silenziosa e pensierosa. Per molte notti restava affacciata alla finestra a guardare verso l'alto, attraverso l'acqua scura, dove i pesci muovevano le pinne e la coda.
Poteva vedere la luna e le stelle, in realtà brillavano debolmente, ma attraverso l'acqua sembravano molto più grandi che ai nostri occhi; se qualcosa le oscurava, come un'ombra nera, lei sapeva che forse una balena nuotava sopra di lei, o forse era una nave con tanti uomini.
Questi non immaginavano certo che una graziosa sirenetta si potesse trovare sotto di loro tendendo verso la carena della nave le sue bianche braccia.
La principessa più grande compì quindici anni e poté raggiungere la superficie del mare.
Tornata a casa, aveva cento cose da raccontare, ma la cosa più bella, secondo lei, era stata stendersi al chiaro di luna su un banco di sabbia nel mare calmo e guardare verso la costa la grande città, piena di luci che brillavano come centinaia di stelle, sentire la musica e il rumore delle carrozze e degli uomini, guardare le moltissime torri e campanili e ascoltare le campane che suonavano. Proprio perché non avrebbe mai potuto andare fin lassù, aveva interesse soprattutto per quei posti.
Oh, con quale attenzione la sorellina minore ascoltò! e quando poi a sera inoltrata andò alla finestra per guardare in alto, attraverso l'acqua scura, pensò alla grande città con tutto quel rumore, e le sembrò di sentire il suono della campana che arrivava fino a lei.
L'anno dopo la seconda sorella ebbe il permesso di risalire l'acqua e di nuotare dove voleva. Si affacciò proprio quando il sole stava tramontando, e trovò che quella vista era la cosa più bella. Tutto il cielo sembrava dorato, raccontò, e le nuvole, sì, la loro bellezza non si poteva descrivere! rosse e viola avevano navigato sopra di lei, ma, molto più veloce delle nuvole, era passato come un lungo velo bianco uno stormo di cigni selvatici, che si dirigeva verso il sole. Anche lei aveva incominciato a nuotare verso il sole, ma questo era scomparso e i riflessi rosati si erano spenti sulla superficie del mare e sulle nuvole.
L'anno successivo toccò alla terza sorella; era la più coraggiosa di tutte e risalì un largo fiume che sfociava nel mare. Vide belle colline verdi con vigneti, castelli e fattorie che spuntavano tra bellissimi boschi; sentì come cantavano gli uccelli, e il sole scaldava tanto che dovette spesso buttarsi in acqua per rinfrescare il viso infuocato. In una piccola insenatura incontrò un gruppo di bambini, che, nudi, correvano e si gettavano in acqua; volle giocare con loro, ma quelli scapparono via spaventati; poi giunse un piccolo animale nero, era un cane ma lei non ne aveva mai visto uno prima, e questo cominciò ad abbaiarle contro, così lei, spaventata, tornò nel mare aperto, ma non poté più dimenticare quei meravigliosi boschi, quelle verdi colline, e quei graziosi bambini che sapevano nuotare, pur non avendo la coda di pesce.
La quarta sorella non fu così coraggiosa; restò in mezzo al mare aperto, e raccontò che proprio lì stava il piacere; poteva guardare per molte miglia in ogni direzione e il cielo sopra di lei le era sembrato una grossa campana di vetro. Aveva visto delle navi, ma da lontano, e le erano parse simili a gabbiani; gli allegri delfini avevano fatto le capriole e le grandi balene avevano soffiato l'acqua dalle narici, ed era stato come vedere cento fontane attorno a sé.
Venne poi il turno della quinta sorella; il suo compleanno cadeva in inverno, e per questo vide cose che le altre non avevano visto. Il mare appariva verde e tutt'intorno galleggiavano grosse montagne di ghiaccio; sembravano perle, raccontò, ma erano molto più grandi dei campanili che gli uomini costruivano. Si mostravano nelle forme più svariate e brillavano come diamanti.
Si era seduta su una delle più grosse e tutti i naviganti erano fuggiti spaventati dal luogo in cui lei si trovava, con il vento che le agitava i lunghi capelli; poi, verso sera, il cielo si era ricoperto di nuvole, c'erano stati lampi e tuoni, e il mare nero aveva sollevato in alto i grossi blocchi di ghiaccio illuminati da lampi infuocati. Su tutte la navi si ammainavano le vele, dominava la paura e l'angoscia, lei invece se ne stava tranquilla sulla sua montagna di ghiaccio galleggiante e guardava i fulmini azzurri colpire a zig-zag il mare illuminato.
La prima volta che le sorelle uscirono dall'acqua, restarono incantate per le cose nuove e magnifiche che avevano visto, ma ora che erano cresciute e avevano il permesso di salire quando volevano, erano diventate indifferenti, sentivano nostalgia di casa, e dopo un mese dissero che da loro c'erano in assoluto le cose più belle e che era molto meglio stare a casa.
Molte volte di sera le cinque sorelle, tenendosi sottobraccio, risalivano alla superficie; avevano belle voci, più belle di quelle umane, e quando c'era tempesta nuotavano fino alle navi che credevano potessero capovolgersi, e cantavano dolcemente di come era bello stare in fondo al mare e pregavano i marinai di non aver paura di arrivare laggiù; ma questi non erano in grado di capire le loro parole, credevano fosse la tempesta e non riuscivano comunque a vedere le bellezze del fondo del mare, perché quando la nave affondava, gli uomini affogavano e arrivavano al castello del re già morti.
Quando le sorelle, di sera, a braccetto, salivano sul mare, la sorellina più piccola restava tutta sola e le osservava; sembrava che volesse piangere, ma le sirene non hanno lacrime e per questo soffrono molto di più. "Ah, se solo avessi quindici anni!" esclamava. "So bene che amerei quel mondo che è sopra di noi e gli uomini che ci abitano e ci costruiscono!".
Finalmente compì quindici anni.
"Adesso sei grande anche tu!" disse la nonna, la vecchia regina vedova. "Vieni! Lascia che ti adorni, come le tue sorelle" e le mise una coroncina di gigli bianchi sui capelli, ma ogni petalo di fiore era formato da mezza perla; poi la vecchia fissò sulla coda della principessa otto grosse ostriche, per mostrare il suo alto casato.
"Mi fa male!" disse la sirenetta.
"Bisogna pur soffrire un po' per essere belli!" rispose la vecchia.
Oh! Come avrebbe voluto togliersi di dosso tutti quegli ornamenti e quella pesante corona! I fiori rossi della sua aiuola l'avrebbero adornata molto meglio, ma non osò cambiare le cose. "Addio!" esclamò, e salì leggera come una bolla d'aria attraverso l'acqua.
Il sole era appena tramontato quando affacciò la testa dall'acqua, tutte le nuvole però ancora brillavano come rose e oro; nel cielo color lilla splendeva chiara e bellissima la stella della sera; l'aria era mite e fresca e il mare calmo. C'era una grande nave con tre alberi, ma una sola vela era tesa, perché non c'era il minimo alito di vento; tra le sartìe e i pennoni stavano seduti i marinai. C'era musica e canti e man mano che scendeva la sera si accendevano centinaia di luci multicolori. Sembrava che ondeggiassero nell'aria le bandiere di tutte le nazioni. La sirenetta nuotò fino all'oblò di una cabina e ogni volta che l'acqua la sollevava, vedeva attraverso i vetri trasparenti molti uomini ben vestiti; il più bello di tutti era però il giovane principe, con grandi occhi neri: non aveva certo più di sedici anni e compiva gli anni proprio quel giorno. Per questo c'erano quei festeggiamenti! I marinai ballavano sul ponte e quando il giovane principe uscì, si levarono in aria più di cento razzi che illuminarono a giorno. La sirenetta si spaventò e si rituffò nell'acqua, ma poco dopo riaffacciò la testa e le sembrò che tutte le stelle del cielo cadessero su di lei. Non aveva mai visto fuochi di quel genere. Grandi soli giravano tutt'intorno, bellissimi pesci di fuoco nuotavano nell'aria azzurra, e tutto si rifletteva nel bel mare calmo. Anche sulla nave c'era tanta luce che si poteva vedere ogni corda, e naturalmente gli uomini. Com'era bello quel giovane principe!
Dava la mano a tutti, ridendo e sorridendo, mentre la musica risuonava nella splendida notte.
Era ormai tardi, ma la sirenetta non seppe distogliere lo sguardo dalla nave e dal bel principe. Le luci variopinte vennero spente, i razzi non vennero più lanciati in aria, non si sentirono più colpi di cannone, ma dal profondo del mare si sentì un rombo, e lei intanto si faceva dondolare su e giù dall'acqua, per guardare dentro la cabina; ma la nave prese velocità, le vele si spiegarono una dopo l'altra, le onde si fecero più grosse, comparvero grosse nuvole e da lontano si scorsero dei lampi. Sarebbe venuta una terribile tempesta! Per questo i marinai ammainarono le vele. La grande nave filava a gran velocità sul mare agitato, l'acqua si alzò come grosse montagne nere che volevano rovesciarsi sull'albero maestro; la nave si immerse come un cigno tra le onde e si fece sollevare di nuovo dall'acqua in movimento. La sirenetta pensò che quella fosse una bella corsa, ma i marinai non erano della stessa opinione; la nave scricchiolava terribilmente, le assi robuste cedevano sotto quei forti colpi, l'acqua colpiva la carena, l'albero maestro si spezzò come se fosse stato una canna; la nave si piegò su un fianco, e l'acqua subito la riempì. Allora la sirenetta capì che erano in pericolo, lei stessa doveva stare attenta alle assi e ai relitti della nave che galleggiavano sull'acqua. Per un attimo fu talmente buio che non riuscì a vedere nulla, quando poi lampeggiò, si fece così chiaro che riconobbe tutti gli uomini della nave; ognuno se la cavava come poteva; lei cercò il principe e lo vide scomparire nel mare profondo, proprio quando la nave affondò. Al primo momento fu molto felice, perché lui ora sarebbe sceso da lei, ma poi ricordò che gli uomini non potevano vivere nell'acqua, e che anche lui sarebbe arrivato al castello di suo padre solo da morto. No, non doveva morire! Nuotò tra le assi e i relitti della nave, senza pensare che avrebbero potuto schiacciarla, si immerse nell'acqua e risalì tra le onde finché giunse dal giovane principe, che quasi non riusciva più a nuotare nel mare infuriato. Cominciava a indebolirsi nelle braccia e nelle gambe, gli si chiusero gli occhi; sarebbe certo morto se non fosse giunta la sirenetta. Lei gli tenne la testa sollevata fuori dall'acqua e con lui si lasciò trasportare dalla corrente dove capitava.
Al mattino il brutto tempo era passato; della nave non era rimasta traccia, il sole sorgeva rosso e risplendeva sull'acqua; fu come se le guance del principe riacquistassero colore, ma gli occhi rimasero chiusi. La sirena lo baciò sulla bella fronte alta e carezzò indietro i capelli bagnati; le sembrò che assomigliasse alla statua di marmo che aveva nel suo giardinetto, lo baciò di nuovo e desiderò con forza che continuasse a vivere.
Poi vide davanti a sé la terra ferma, alte montagne azzurre sulla cui cima la bianca neve risplendeva come ci fossero stati candidi cigni; lungo la costa si stendevano bei boschi verdi e proprio lì davanti si trovava una chiesa o un convento, non sapeva bene, ma era un edificio.
Aranci e limoni crescevano nel giardino e davanti all'ingresso si alzavano delle palme; il mare disegnava lì una piccola insenatura, calmissima ma molto profonda, fino alla scogliera dove c'era sabbia bianca e sottile. Lei nuotò là col suo bel principe, lo posò sulla sabbia e si preoccupò che la testa fosse sollevata e rivolta verso il caldo sole.
Suonarono in quel momento le campane di quel grande edificio bianco, e molte ragazze comparvero nel giardino. Allora la sirenetta si ritirò nuotando, dietro alcune alte pietre che spuntavano dall'acqua, si mise della schiuma tra i capelli e sul petto affinché nessuno la vedesse e aspettò che qualcuno andasse dal povero principe.
Non passò molto tempo e una fanciulla si avvicinò; si spaventò molto, ma solo per un attimo, poi andò a chiamare altra gente, e la sirena vide che il principe tornò in vita e sorrise a quanti lo circondavano, ma non sorrise a lei, anche perché non sapeva che era stata lei a salvarlo. Si sentì molto triste e quando lo ebbero portato dentro quel grande edificio, si reimmerse dispiaciuta nell'acqua, e tornò al castello del padre.
Se era sempre stata calma e pensierosa, ora lo fu molto di più. Le sorelle le chiesero che cosa avesse visto la prima volta che era stata lassù, ma lei non raccontò nulla.
Per molte volte al mattino e alla sera, risalì fino al punto in cui aveva lasciato il principe. Vide che i frutti del giardino erano maturi e venivano colti, vide che la neve si scioglieva dalle alte montagne; ma non vide mai il principe e così se ne tornava a casa ogni volta sempre più triste. La sua unica consolazione era quella di andare nel suo giardinetto e di abbracciare la bella statua di marmo che assomigliava al principe; non curava più i suoi fiori, che crescevano in modo selvaggio anche sui viali e intrecciavano i loro steli e le foglie con i rami degli alberi, così che c'era molto buio.
Alla fine non resse più, raccontò tutto a una sorella, e così anche le altre ne furono al corrente, ma poi nessun altro fu informato, eccetto poche altre amiche che pure non lo dissero a nessuno se non alle loro amiche più intime. Una di loro sapeva chi fosse quel principe, anche lei aveva visto la festa sulla nave e sapeva da dove veniva e dov'era il suo regno.
"Vieni, sorellina!" dissero le altre principesse e, tenendosi sotto braccio, risalirono il mare fino al punto in cui si trovava il castello del principe.
Questo era fatto di una lucente pietra gialla, aveva grandi scalinate di marmo, una delle quali scendeva fino al mare. Splendide cupole dorate si innalzavano dal tetto, e tra le colonne che circondavano l'intero edificio si trovavano statue di marmo, che sembravano vive.
Attraverso i vetri trasparenti delle alte finestre si poteva guardare in saloni meravigliosi, con preziose tende di seta e tappeti, con grandi quadri alle pareti che erano proprio divertenti da guardare. In mezzo al salone si trovava una fontana con lo zampillo che arrivava fino alla cupola di vetro del soffitto, attraverso la quale il sole faceva luccicare l'acqua e le belle piante che ci crescevano dentro.
Ora lei sapeva dove abitava il principe e ci tornò per molte sere; nuotava molto vicino alla terra come nessun altro aveva osato fare, risaliva addirittura lo stretto canale fino alla magnifica terrazza di marmo che gettava una grande ombra sull'acqua. Qui si metteva a guardare il giovane principe, che credeva di trovarsi tutto solo al chiaro di luna.
Lo vide molte volte navigare in una splendida barca, con la musica e le bandiere al vento; allora si affacciava tra le verdi canne e il vento le sollevava il lungo velo argenteo, e se qualcuno la vedeva poteva pensare che fosse un cigno ad ali spiegate.
Per molte notti sentì i pescatori, che stavano in mare con le lanterne, parlare molto bene del principe, e fu felice di avergli salvato la vita quella volta che era quasi morto e si era abbandonato alle onde; pensò anche al capo che aveva riposato sul suo petto, e con quanta dolcezza lo aveva baciato, ma lui non ne sapeva niente e non poteva neppure sognarla.
Gli uomini le piacevano ogni giorno di più, e sempre più spesso desiderava salire e stare con loro: pensava che il loro mondo fosse molto più grande del suo: loro potevano navigare sul mare con le navi, arrampicarsi sulle alte montagne fin sopra le nuvole, e i campi che possedevano si estendevano con boschi e prati molto lontano, così lontano che non riusciva a vederli. C'erano tante cose che le sarebbe piaciuto sapere, ma le sorelle non sapevano rispondere a tutto, allora le chiese alla nonna che conosceva bene quel mondo di sopra che chiamava giustamente "il paese sopra il mare".
"Se gli uomini non affogano" chiese la sirenetta, "possono vivere per sempre? Non muoiono come facciamo noi, nel mare?".
"Certo" rispose la vecchia. "Anche loro devono morire e la lunghezza della loro vita è più breve della nostra. Noi possiamo arrivare fino a trecento anni; quando però non viviamo più diventiamo schiuma dell'acqua, non abbiamo una tomba tra i nostri cari; non abbiamo un'anima immortale e non vivremo mai più: siamo come le verdi canne che, una volta tagliate, non rinverdiscono! Gli uomini invece hanno un'anima che continua a vivere anche dopo che il corpo è diventato terra; sale attraverso l'aria fino alle stelle lucenti! Come noi saliamo per il mare e vediamo la terra degli uomini, così loro salgono fino a luoghi bellissimi e sconosciuti, che noi non potremo mai vedere!" "Perché non abbiamo un'anima immortale?" chiese la sirenetta tutta triste, "io darei cento degli anni che devo ancora vivere per essere un solo giorno come gli uomini e poi abitare nel mondo celeste!".
"Non devi neanche pensare queste cose!" esclamò la vecchia. "Noi siamo molto più felici e stiamo certo meglio degli uomini".
"Allora io devo morire e diventare schiuma del mare e non sentire più la musica delle onde, o vedere i bei fiori e il sole rosso! Non posso fare proprio nulla per ottenere un'anima immortale?".
"No" rispose la vecchia. "Solo se un uomo ti amasse più di suo padre e sua madre, e tu fossi l'unico suo pensiero e il solo oggetto del suo amore, e se un prete mettesse la sua mano nella tua con un giuramento di fedeltà eterna; solo allora la tua anima entrerebbe nel tuo corpo e tu riceveresti parte della felicità degli uomini. Egli ti darebbe un'anima, conservando sempre la propria. Ma questo non potrà mai accadere. La cosa che qui è così bella, la coda di pesce, è considerata orribile sulla terra. Non capiscono niente; per loro bisogna avere due strani sostegni che chiamano gambe, per essere belle!".
La sirenetta sospirò guardando la sua coda di pesce.
"Stiamo allegre!" disse la vecchia. "Saltiamo e balliamo per i trecento anni che possiamo vivere; non è certo poco tempo! Poi ci riposeremo più volentieri nella tomba. Stasera c'è il ballo a corte".
Quello era uno spettacolo meraviglioso che non si vede mai sulla terra! Le pareti e il soffitto dell'ampia sala da ballo erano costituite da un grosso vetro trasparente. Migliaia di conchiglie enormi, rosa e verdi come l'erba, erano allineate da ogni lato, con un fuoco azzurro fiammeggiante che illuminava tutta la sala e si rifletteva oltre le pareti, così che il mare di fuori fosse tutto illuminato. Si potevano vedere innumerevoli pesci, grandi e piccoli, che nuotavano contro la parete di vetro; su alcuni brillavano squame rosse scarlatte, su altri, d'oro e d'argento. In mezzo alla sala scorreva un largo fiume dove danzavano i delfini e le sirene, che cantavano così soavemente. Gli uomini sulla terra non hanno certo voci così belle. La sirenetta cantò meglio di tutte, e tutti le battevano le mani; per un istante si sentì felice, perché sapeva di avere la voce più bella sia sul mare che sulla terra! Ma subito tornò a pensare al mondo che c'era sopra di loro; non riusciva a dimenticare quel bel principe e il suo dolore per il fatto di non possedere, come lui, un'anima immortale. Uscì in silenzio dal castello del padre e andò a sedersi nel suo giardinetto, mentre dall'interno risuonavano canti pieni d'allegria. Allora sentì attraverso l'acqua il suono dei corni e pensò: "Sta certamente navigando qua sopra, quello che io amo più di mio padre e di mia madre, che riempie ogni mio pensiero e nella cui mano io voglio riporre la felicità della mia vita. Voglio fare qualunque cosa per conquistare lui e un'anima immortale! Mentre le mie sorelle ballano nel castello di mio padre, io andrò dalla strega del mare; ho sempre avuto tanta paura di lei, ma forse mi potrà consigliare e aiutare!".
La sirenetta uscì dal suo giardino e si avviò verso il torrente ribollente, dietro il quale abitava la strega. Non aveva mai percorso quella strada; non vi crescevano né fiori né erba, solo un fondo di sabbia grigia si stendeva verso il torrente, dove l'acqua, che sembrava spinta dalle ruote del mulino, girava come un vortice e inghiottiva tutto quello che poteva afferrare. Dovette passare in mezzo a quei vortici tremendi per arrivare nel territorio della strega, e qui c'era da attraversare una vasta pianura bollente, che la strega chiamava la sua torbiera. Oltre la torbiera si trovava la sua casa, in mezzo a un orribile bosco.
Tutti gli alberi e i cespugli erano polipi, per metà bestie e per metà piante: sembravano centinaia di teste di serpente che crescevano dal terreno; tutti i rami erano lunghe braccia vischiose, con le dita simili a vermi ripugnanti, che si muovevano in ogni loro parte, dalle radici fino alla punta più estrema. Si avvolgevano intorno a tutto quello che potevano afferrare e non lo lasciavano mai più. La sirenetta si fermò spaventatissima; il cuore le batteva forte per la paura, stava per tornare indietro, ma pensò al principe e all'anima degli uomini, così le tornò il coraggio. Legò per bene i lunghi capelli svolazzanti, affinché i polipi non riuscissero ad afferrarli; mise le mani sul petto e partì passando come un pesce guizzante nell'acqua, tra gli orribili polipi, che allungavano i vischiosi tentacoli verso di lei. Vide ciò che ognuno di essi aveva afferrato, centinaia di tentacoli trattenevano le prede come tenaglie di ferro:
uomini che erano morti in mare e caduti sul fondo si affacciavano come bianchi scheletri tra i tentacoli; remi di imbarcazioni e casse erano tenuti stretti, scheletri di animali e persino una sirenetta che avevano catturato e soffocato. Questa vista fu per lei la più spaventosa!
Poi giunse in un'ampia radura di fango nel bosco, dove grossi serpenti di mare si rivoltavano mostrando i loro orridi denti gialli. Nel mezzo si trovava una casa fatta con le bianche ossa di uomini calati sul fondo; lì stava la strega del mare e lasciava che un rospo mangiasse dalla sua mano, come gli uomini fanno con i canarini quando gli danno lo zucchero. Quegli orribili grossi serpenti di mare erano chiamati "pulcini" dalla strega che li lasciava strisciare sui suoi grossi seni cadenti.
"So bene che cosa vuoi!" disse la strega del mare, "sei proprio impazzita! comunque il tuo desiderio verrà soddisfatto, perché ti porterà sventura, mia bella principessa! Vuoi liberarti della tua coda di pesce e ottenere in cambio due sostegni per camminare come gli uomini, così che il giovane principe si innamori di te e tu possa ottenere un'anima immortale!". La strega rideva così sguaiatamente che il rospo e i serpenti caddero a terra e lì continuarono a rotolarsi.
"Arrivi appena in tempo!" riprese.
"Domani, una volta sorto il sole, non potrei più aiutarti e dovresti aspettare un anno intero. Ti preparerò una bevanda, ma con questa devi nuotare fino alla terra e berla prima che sorga il sole. Allora la tua coda si dividerà e si trasformerà in ciò che gli uomini chiamano gambe. Soffrirai come se una spada affilata ti trapassasse. Tutti quelli che ti vedranno, diranno che sei la più bella creatura umana mai vista! Conserverai la tua aggraziata andatura, nessuna ballerina sarà migliore di te, sarà come se camminassi su un coltello appuntito, e il tuo sangue scorrerà. Se vuoi soffrire tutto questo, ti aiuterò!".
"Sì" esclamò la principessa con voce tremante pensando al principe, e all'anima immortale.
"Ma ricordati" aggiunse la strega, "una volta che ti sarai trasformata in donna, non potrai mai più ritornare a essere una sirena! Non potrai più discendere nel mare dalle tue sorelle e al castello di tuo padre; e se non conquisterai l'amore del principe, cosicché lui dimentichi per te suo padre e sua madre, dipenda da te per ogni suo pensiero e chieda al prete di congiungere le vostre mani rendendovi marito e moglie, non avrai mai un'anima immortale! e se lui sposerà un'altra, il primo mattino dopo il matrimonio il tuo cuore si spezzerà e tu diventerai schiuma dell'acqua!".
"Lo voglio ugualmente!" disse la sirenetta, che era pallida come una morta.
"Però mi devi ricompensare!" aggiunse la strega, "e non è poco quello che pretendo. Tu possiedi la voce più bella tra tutti gli abitanti del mare, e credi con quella di poterlo sedurre; ma la voce devi darla a me. Io voglio ciò che tu di meglio possiedi per la mia preziosa bevanda! Devo versarci del sangue, affinché il filtro sia tagliente come una spada a due lame!".
"Se mi prendi la voce" chiese la sirenetta, "che cosa mi resta?".
"La tua splendida persona, la tua armoniosa andatura e i tuoi occhi espressivi; con questo riuscirai certo a conquistare il cuore di un uomo. Allora! hai perso il coraggio? Tira fuori la lingua così te la taglio; è il pagamento per quella potente bevanda!".
"Va bene!" esclamò la sirenetta, e la strega mise sul fuoco la pentola per far bollire la bevanda magica. "La pulizia è un'ottima cosa!" disse mentre strofinava la pentola con alcune serpi legate insieme, poi si tagliò il petto e fece gocciolare il suo sangue nero, e il vapore assunse forme molto strane che facevano proprio paura.
"Eccola qui!" disse la strega e tagliò la lingua alla sirenetta, che ora era muta e non poteva più né cantare né parlare.
"Se i polipi volessero afferrarti, mentre passi di nuovo attraverso il mio bosco" spiegò la strega, "getta una goccia di questa bevanda su di loro e le loro braccia e dita si romperanno in mille pezzi". Ma la sirenetta non ebbe bisogno di farlo; i polipi si allontanarono spaventati da lei non appena videro quella bevanda lucente che teneva in mano come fosse una stella luminosa. Così passò in fretta per il bosco, per la palude e per il torrente che ribolliva.
Vide il castello di suo padre, le luci erano spente nella grande sala da ballo; certamente tutti dormivano, e lei comunque non avrebbe osato cercarli: ora era muta e doveva andarsene per sempre. Le sembrò che il cuore si spezzasse per il dolore. Andò in silenzio nel giardino e prese un fiore da ogni giardinetto delle sorelle; gettò con le dita mille baci verso il castello e salì per il mare blu.
Il sole non era ancora sorto quando vide il castello del principe e salì per la bellissima scalinata di marmo. La luna splendeva meravigliosa. La sirenetta bevve allora il filtro infuocato, e subito fu come se una spada a due lame le trafiggesse il corpo delicato; svenne e rimase distesa come morta. Quando il sole spuntò all'orizzonte, si svegliò e sentì un dolore lancinante, ma proprio davanti a lei stava il giovane principe, bellissimo, che la fissava con i magnifici occhi neri, così lei abbassò i suoi e vide che la sua coda di pesce era scomparsa e ora possedeva le più belle gambe bianche che mai nessuna fanciulla avesse avuto. Ma era tutta nuda e così si avvolse nei suoi capelli. Il principe le chiese chi fosse e come fosse arrivata fin lì, lei lo guardò dolcemente e tanto tristemente coi suoi occhi azzurri: non poteva parlare. Lui la prese per mano e la portò al palazzo. A ogni passo le sembrava, come la strega le aveva detto, di camminare su punte taglienti e su coltelli affilati, ma sopportò tutto volentieri, e tenendo il principe per mano salì le scale leggera come una bolla d'aria e sia lui che gli altri ammirarono la sua armoniosa andatura.
Ricevette costosi abiti di seta e di mussola, era la più bella del castello, ma era muta, non poteva né cantare né parlare. Graziose damigelle vestite d'oro e di seta avanzarono e cantarono davanti al principe e ai suoi genitori, una di loro cantò meglio delle altre e il principe batté le mani e le sorrise. In quel momento la sirenetta si rattristò; sapeva che avrebbe saputo cantare molto meglio, e pensò:
"Dovrebbe proprio sapere che io, per stare vicino a lui, ho ceduto per sempre la mia voce!".
Poi le damigelle ballarono balli meravigliosi su una musica dolcissima; allora anche la sirenetta tese le braccia bianche, si alzò sulla punta di piedi e volteggiò, ballò come mai nessuno aveva fatto; a ogni movimento la sua bellezza era sempre più visibile e i suoi occhi parlavano al cuore molto meglio dei canti delle damigelle.
Tutti rimasero incantati, soprattutto il principe, che la chiamò la sua trovatella, e lei continuò a danzare, anche se ogni volta che i piedi toccavano terra, era come se toccassero coltelli affilati. Il principe le disse che sarebbe dovuta rimanere per sempre con lui e le diede il permesso di dormire fuori dalla sua stanza su un cuscino di velluto.
Fece preparare per lei un costume da amazzone, affinché potesse accompagnarlo a cavallo. Cavalcarono in mezzo ai boschi profumati, dove i verdi rami gli sfioravano le spalle e gli uccellini cantavano tra le foglie fresche. La sirenetta si arrampicò col principe sulle alte montagne, e nonostante i suoi piedi sanguinassero a tal punto che anche gli altri se ne accorsero, lei ne rideva e lo seguì fino a dove poterono vedere le nuvole spostarsi sotto di loro, come fossero state stormi di uccelli che si dirigevano verso paesi stranieri.
Quando al castello di notte gli altri dormivano, lei andava alla scalinata di marmo e si rinfrescava i piedi doloranti immergendoli nell'acqua del mare, e intanto pensava a quelli che stavano nelle profondità marine.
Una notte giunsero le sue sorelle a braccetto, cantarono tristemente, nuotando sulle onde, lei le salutò con la mano e loro la riconobbero e raccontarono quanto li avesse resi tristi. Da quella volta tutte le notti le facevano visita, e una notte vide, lontano, la vecchia nonna, che da molti anni non era più salita in superficie, e il re del mare, con la corona in testa; tesero le braccia verso di lei, ma non osarono avvicinarsi alla terra come le sue sorelle.
Ogni giorno il principe le voleva più bene, la amava come si può amare una cara fanciulla, ma non pensava certo di renderla regina; eppure lei doveva diventare sua moglie, altrimenti non avrebbe mai ottenuto un'anima immortale, e al mattino successivo al matrimonio del principe con un'altra sarebbe diventata schiuma.
"Non vuoi più bene a me che a tutti gli altri?" sembrava chiedessero gli occhi della sirenetta, quando il principe la prendeva tra le braccia e le baciava la bella fronte.
"Sì, tu sei la più cara di tutte!" diceva il principe, "perché hai un cuore che è migliore di tutti gli altri, poi mi sei molto devota, e assomigli tanto a una fanciulla che vidi una volta, ma che sicuramente non troverò mai più. Ero su una nave che affondò, le onde mi trascinarono a riva vicino a un tempio dove servivano molte fanciulle; la più giovane mi trovò sulla spiaggia e mi salvò la vita, la vidi solo due volte; è l'unica persona che potrei amare in questo mondo, e tu le assomigli, e hai quasi sostituito la sua immagine nel mio animo.
Lei appartiene al tempio e per questo la mia buona sorte ti ha mandato da me; non ci separeremo mai".
"Oh, lui non sa che sono stata io a salvargli la vita!" pensò la sirenetta. "Io l'ho sorretto in mare fino al bosco dove si trova il tempio, io mi sono nascosta tra la schiuma per vedere se arrivava gente. E ho visto quella bella fanciulla che lui ama più di me!" e intanto sospirava profondamente, poiché non poteva piangere. "Ma quella ragazza appartiene al tempio, ha detto il principe, e non verrà mai nel mondo, non si incontreranno mai più, e io sono vicino a lui, lo vedo ogni giorno, avrò cura di lui, lo amerò e gli sacrificherò la mia vita!".
Un giorno si venne a sapere che il principe si doveva sposare con la bella principessa del reame confinante, e per questo stava allestendo una splendida nave. Il principe sarebbe andato a visitare il regno vicino, così si diceva, ma in realtà era per vedere la figlia del re; e avrebbe portato con sé un ricco seguito. Ma la sirenetta scuoteva la testa e rideva; conosceva il pensiero del principe molto meglio degli altri. "Sono costretto a partire" le aveva detto, "devo incontrare quella bella principessa; i miei genitori lo vogliono, ma non mi costringeranno a portarla a casa come mia sposa. Non lo voglio! Non posso amarla, non assomiglia alla bella fanciulla del tempio, come le somigli tu. Se mai dovessi scegliere una sposa, allora prenderei te, mia trovatella muta ma con gli occhi parlanti!". E le baciò la bocca rossa, le carezzò i lunghi capelli e posò il capo sul suo cuore, che sognò una felicità umana e un'anima immortale.
"Non hai paura del mare, vero, mia fanciulla muta?" le chiese il principe quando furono sulla meravigliosa nave che doveva portarli nel regno vicino, e le raccontò della tempesta e del mare calmo, degli strani pesci e di quello che i palombari avevano visto sul fondo, e lei sorrideva ai suoi racconti, lei che conosceva meglio di chiunque altro il fondo del mare.
Nella chiara notte di luna, mentre tutti gli altri dormivano meno il timoniere, si appoggiò al parapetto della nave, e guardò verso l'acqua trasparente; le sembrò di vedere il castello di suo padre e la vecchia nonna con la corona d'argento in testa che osservava, attraverso le correnti del mare, il movimento della nave. Poi giunsero alla superficie le sue sorelle, che la fissarono tristemente tendendo le mani bianche verso di lei; lei le salutò, sorrise, e avrebbe voluto dire che tutto andava bene, ma il mozzo si avvicinò e le sorelle si immersero nell'acqua, così lui credette che quel biancore che aveva visto fosse la schiuma del mare.
Il mattino dopo la nave entrò nel porto della bella città del re vicino. Tutte le campane suonarono e dalle alte torri suonarono le trombe, mentre i soldati, tra lo sventolìo delle bandiere, presentavano le baionette lucenti. Ogni giorno ci fu una festa. Balli e ricevimenti si susseguirono, ma la principessa non c'era ancora, abitava molto lontano, in un tempio, dissero, per imparare tutte le virtù necessarie a una regina. Finalmente un giorno arrivò.
La piccola sirena era ansiosa di vedere la sua bellezza e dovette riconoscere di non aver mai visto una figura così graziosa. La pelle era molto delicata e trasparente, e sotto le lunghe ciglia scure due occhi azzurri e fiduciosi sorridevano.
"Sei tu!" esclamò il principe, "tu che mi hai salvato quando giacevo come morto sulla costa!" e strinse tra le braccia la fidanzata, che era arrossita. "Oh, sono troppo felice!" disse alla sirenetta. "La cosa più bella, che non avevo mai osato sperare, è avvenuta!
Rallegrati con me, tu che mi vuoi così bene tra tutti!". E la sirenetta gli baciò la mano, ma sentì che il suo cuore si spezzava. Il mattino dopo le nozze sarebbe morta, trasformata in schiuma del mare.
Tutte le campane suonarono, gli araldi cavalcarono per le strade ad annunciare il fidanzamento. Su tutti gli altari si bruciarono oli profumati in preziose lampade d'argento. I preti fecero oscillare gli incensieri mentre gli sposi si strinsero le mani e ricevettero la benedizione del vescovo.
La sirenetta, vestita di seta e d'oro, reggeva lo strascico, ma le sue orecchie non sentivano quella musica gioiosa, i suoi occhi non vedevano quella sacra cerimonia: pensava alla sua morte e a tutto quello che avrebbe perso in questo mondo.
La sera stessa gli sposi salirono a bordo della nave, i cannoni spararono, e le bandiere sventolarono; in mezzo alla nave era stata montata una tenda reale fatta di oro e porpora, con cuscini sofficissimi, su cui la coppia di sposi avrebbe dovuto dormire in quella quieta e fredda notte.
Le vele sventolavano al vento, e la nave scivolava leggera, senza scossoni, sul mare trasparente.
Quando venne buio si accesero le lampade variopinte e i marinai ballarono allegramente sul ponte. La sirenetta ripensò alla prima volta in cui si era affacciata sulla terra e aveva visto lo stesso splendore e la stessa gioia, si inserì nelle danze, volteggiò come fa la rondine quando viene inseguita, e tutti le mostrarono la loro ammirazione: mai aveva ballato così bene. Sentiva i piedini come tagliati da affilati coltelli, ma non ci badò, le faceva più male il cuore. Sapeva che quella era l'ultima sera in cui vedeva colui per il quale aveva lasciato la sua gente e la sua casa, per il quale aveva rinunciato alla sua bella voce, per il quale aveva sofferto ogni giorno tormenti senza fine, che lui neppure poteva immaginare. Quella era l'ultima notte in cui avrebbe respirato la sua stessa aria; guardò verso il profondo mare e verso il cielo stellato: una notte eterna senza pensieri né sogni la aspettava, poiché non aveva un'anima, né poteva ottenerla. L'allegria e la gioia sulla nave durarono a lungo, anche dopo mezzanotte; anche lei rise e danzò ma aveva pensieri di morte nel cuore. Il principe baciò la sua bella sposa e lei gli accarezzò i capelli neri, poi a braccetto andarono a riposarsi nella splendida tenda.
Calò il silenzio sulla nave, solo il timoniere era sveglio al timone; la sirenetta pose le bianche braccia sul parapetto e guardò verso est, per vedere il rosso dell'alba: il primo raggio di sole l'avrebbe uccisa. Allora vide le sue sorelle spuntare fuori dal mare, erano pallide come lei, i loro lunghi capelli non si agitavano più nel vento, erano stati tagliati.
"Li abbiamo dati alla strega, perché ti venisse ad aiutare affinché tu non muoia questa notte. Allora ci ha dato un pugnale; eccolo! vedi com'è affilato? Prima che sorga il sole devi infilzarlo nel cuore del principe; quando il suo caldo sangue bagnerà i tuoi piedi, questi riformeranno una coda di pesce e tu ridiventerai una sirena e potrai gettarti in acqua con noi e vivere i tuoi trecento anni prima di morire e diventare schiuma salata. Fai presto! O tu o lui dovete morire prima che sorga il sole! La nonna soffre tanto e ha perso tutti i capelli bianchi e i nostri sono caduti sotto le forbici della strega. Uccidi il principe e torna indietro! Presto! non vedi quella striscia rossa nel cielo? Tra pochi minuti sorgerà il sole e allora morirai!". Sospirarono profondamente e si reimmersero fra le onde.
La sirenetta sollevò il tappeto di porpora della tenda e vide la bella sposina dormire con il capo sul petto del principe, si chinò verso di lui e gli baciò la bella fronte, guardò verso il cielo dove la luce dell'alba si faceva sempre più intensa, guardò il coltello affilato e poi fissò di nuovo gli occhi del principe, che in sogno pronunciò il nome della sua sposa; solo lei era nei suoi pensieri, e il coltello tremò nella mano della sirena. Allora lo gettò lontano tra le onde, che brillarono rosse dove era caduto: sembrava che gocce di sangue zampillassero dall'acqua. Ancora una volta guardò con lo sguardo spento verso il principe; poi si gettò in mare e sentì che il suo corpo si scioglieva in schiuma.
Il sole sorse alto sul mare, i raggi battevano caldi sulla schiuma gelida e la sirenetta non sentì la morte, vedeva il bel sole e su di lei volavano centinaia di bellissime creature trasparenti; attraverso le loro immagini poteva vedere la bianca vela della nave e le rosse nuvole del cielo; la loro voce era una melodia così spirituale che nessun orecchio umano poteva sentirla; così come nessun occhio umano poteva vederle. Volavano nell'aria senza ali, grazie alla loro stessa leggerezza. La sirenetta vide che aveva un corpo come il loro, e che si sollevava sempre più dalla schiuma.
"Dove sto andando?" chiese la sirenetta, e la sua voce risuonò come quella delle altre creature, così spirituale che nessuna musica terrena poteva riprodurla.
"Dalle figlie dell'aria!" le risposero. "Le sirene non hanno un'anima immortale e non possono ottenerla se non conquistando l'amore di un uomo! La loro esistenza immortale dipende da una forza estranea. Anche le figlie dell'aria non hanno un'anima immortale, ma possono conquistarne una da sole, tramite le buone azioni. Noi andiamo verso i paesi caldi; dove l'aria calda e pestilenziale uccide gli uomini, noi portiamo il fresco. Spandiamo il profumo dei fiori nell'aria e portiamo ristoro e guarigione. Se per trecento anni interi continuiamo a fare tutto il bene che possiamo, otteniamo un'anima immortale e possiamo partecipare all'eterna felicità degli uomini. Tu, povera sirenetta, lo hai desiderato con tutto il cuore; anche tu, come noi, hai sofferto e sopportato, e sei arrivata al mondo delle creature dell'aria: ora puoi compiere delle buone azioni e conquistarti un'anima immortale fra trecento anni!".
La sirenetta sollevò le braccia trasparenti verso il sole del Signore e per la prima volta sentì la lacrime agli occhi. Sulla nave era ripresa la vita e il rumore; vide che il principe e la sua bella sposa la cercavano, e guardarono tristemente verso la schiuma del mare, quasi sapessero che si era gettata tra le onde. Invisibile baciò la sposa sulla fronte, sorrise al principe e salì con le altre figlie dell'aria su una nuvola rosa che navigava nel cielo.
"Fra trecento anni entreremo nel regno di Dio!" "Anche prima potremo arrivarci" sussurrò una di loro. "Senza farci vedere entriamo nelle case degli uomini, dove c'è qualche bambino; ogni volta che troviamo un bambino buono che rende felici i suoi genitori e merita il loro amore, il Signore ci abbrevia il periodo di prova. Il bambino non sa quando entriamo in casa, ma noi gli sorridiamo per la gioia, e così ci viene tolto un anno dei trecento che ci toccano; se invece troviamo un bambino cattivo e capriccioso, allora dobbiamo piangere di dolore e ogni lacrima aumenta di un giorno il nostro tempo di prova!".
 
 
 
IL PARADISO TERRESTRE  
C'era una volta un figlio di re; nessuno aveva tanti bei libri come lui: poteva leggere e guardare raffigurato in magnifiche illustrazioni tutto quello che era successo al mondo. Poteva avere notizie di ogni popolo e di ogni paese, ma dove si trovasse il paradiso terrestre non era scritto da nessuna parte; lui pensava soprattutto a questo.
La nonna gli aveva raccontato, quando era ancora piccolo e doveva andare a scuola, che ogni fiore del paradiso terrestre era in realtà un buonissimo dolce, che ogni stame era pieno del vino migliore, che su un fiore c'era la storia, su un altro la geografia o le tabelline, e che bastava mangiarli per imparare le lezioni; quanto più se ne mangiavano, tanto più si imparava di storia, geografia e tabelline.
A quel tempo lui ci credeva, ma ora che era cresciuto, aveva imparato di più ed era diventato più sveglio, aveva capito che doveva esserci un altro genere di bellezza nel paradiso terrestre.
"Oh! Perché Eva violò la legge dell'albero della conoscenza? Perché Adamo mangiò il frutto proibito? Se ci fossi stato io, non sarebbe accaduto! Mai sarebbe arrivato il peccato sulla Terra!" Così diceva allora e così diceva ancora adesso, che aveva diciassette anni. Il paradiso terrestre occupava tutti i suo pensieri!
Un giorno andò nel bosco, ci andò da solo, perché questo era il suo divertimento preferito.
Venne la sera e le nuvole si ingrossarono, cominciò a piovere forte come se il cielo fosse un'unica cataratta da cui cadeva tutta l'acqua; era così buio che sembrava di essere di notte dentro il pozzo più profondo. Il principe cominciò ora a scivolare sull'erba bagnata, ora a cadere sulle pietre nude che sporgevano dal terreno. Tutto gocciolava d'acqua, e il principe stesso si ritrovò bagnato fradicio.
Si dovette inerpicare su grossi blocchi di pietra coperti di alto muschio che gocciolava tutto. Stava per svenire, quando sentì uno strano sibilo e vide davanti a sé una grande grotta illuminata. Nel mezzo ardeva un fuoco così grande che ci si poteva arrostire un cervo, ed era appunto quello che stava accadendo. Un bellissimo cervo dalle lunghe corna era stato posto sullo spiedo e girava lentamente, appoggiato a due tronchi d'abete abbattuti.
Una vecchia grossa e robusta, che sembrava un uomo travestito, era seduta accanto al fuoco e ci gettava di continuo pezzi di legna.
"Avvicinati!" disse, "siediti accanto al fuoco così i tuoi abiti asciugheranno".
"C'è un'aria terribile, qui" esclamò il principe sedendosi a terra.
"Sarà anche peggio quando torneranno a casa i miei figli!" rispose la donna. "Ti trovi nella grotta dei venti, i miei figli sono i quattro venti del mondo. Lo capisci?" "Dove sono i tuoi figli?" domandò il principe.
"Non è facile rispondere a una domanda sciocca! I miei figli sono in libertà, giocano a palla con le nuvole su nel grande salone" e indicò verso l'alto.
"Ah sì?" esclamò il principe. "Però voi parlate duramente e non siete dolce come le altre donne che di solito mi stanno intorno!" "Certo! Quelle non avranno altro da fare! bisogna che io sia dura se voglio che i miei figli siano disciplinati. E ci riesco anche se hanno la testa dura! Vedi quei quattro sacchi appesi alla parete? Di quelli hanno timore proprio come tu temevi la bacchetta dietro lo specchio.
Io sono ancora capace di piegare i miei ragazzi, te lo assicuro, e di metterli nel sacco. Qui non si fanno complimenti! Restano lì dentro e non tornano a bighellonare, finché non credo che sia arrivato il momento giusto. Ma ecco che ne arriva uno." Era il vento del Nord, che entrò con un freddo incredibile; grossi chicchi di grandine rimbalzarono sul pavimento e fiocchi di neve volarono dovunque. Portava calzoni e una giacca di pelle d'orso, un cappello di pelle di foca gli copriva anche le orecchie; lunghi ghiaccioli gli pendevano dalla barba, e dal bavero della giacca caddero per terra chicchi di grandine.
"Non andare subito vicino al fuoco!" lo avvisò il principe. "Ti possono venire i geloni alle mani e al viso!" "Geloni!" disse ridendo forte il vento del Nord. "Geloni! è proprio il mio divertimento preferito! E tu chi sei? Come mai sei qui nella grotta dei venti?" "E' mio ospite" disse la vecchia, "e se non ti soddisfa questa spiegazione puoi sempre andartene nel sacco! Mi conosci bene!" La frase fece il suo effetto, e il vento del Nord raccontò da dove veniva e dov'era stato per quasi un mese intero.
"Vengo dal Polo!" disse. "Sono andato verso l'Isola degli Orsi con alcuni russi cacciatori di trichechi. Ho dormito sul timone mentre navigavano da Capo Nord. Quando ogni tanto mi svegliavo, le procellarie mi volavano tutt'intorno. E' proprio un uccello strano, si innalza con un rapido colpo d'ali, poi le mantiene completamente immobili eppure vola velocissimo! " "Non essere troppo prolisso!" esclamò la madre dei venti. "Sei poi arrivato all'Isola degli Orsi?" "Che bellezza! C’è un pavimento fantastico per ballare, è tutto liscio come un piatto. Laggiù c'era neve mezza gelata e muschio, pietre aguzze e ossa di tricheco e di orso polare, sembravano proprio braccia e gambe di antichi guerrieri ricoperti di muffa verde, come se il sole non li avesse mai raggiunti. Disperdendo la nebbia con il mio soffio scoprii un rifugio, una capanna di rottami ricoperta di pelle di tricheco, con la parte della carne tutta rossa e verde rivolta verso l'esterno. Sul tetto era seduto un orso bianco vivo che brontolava.
Poi andai alla spiaggia a vedere i nidi di uccello; trovai dei piccoli ancora senza piume, che gridavano con il becco spalancato, io soffiai nelle loro mille gole e così impararono a tenere la bocca chiusa. Più oltre c'erano trichechi che si rotolavano come budella vive o come enormi lombrichi con la testa di maiale e denti lunghissimi!" "Sai raccontare molto bene, figlio mio!" disse la madre. "Mi viene l'acquolina in bocca ad ascoltarti." Poi ci fu la caccia. L'arpione fu infilato nel petto del tricheco, e uno spruzzo di sangue fumante si sparse sul ghiaccio come fosse una fontana. Allora pensai di intervenire. Soffiai e intrappolai le imbarcazioni con i miei velieri, gli altissimi iceberg. Accidenti come fischiarono i cacciatori! come urlarono!
Ma io fischiai ancora più forte. Dovettero trascinare sul ghiaccio i corpi dei trichechi morti, le casse e le sartie! Io gli scrollai intorno neve e li obbligai a dirigersi verso sud trascinando le loro prede, sempre con le navi intrappolate tra il ghiaccio; così assaggeranno l'acqua salata del Sud! E non torneranno mai piu all'lsola degli Orsi!" "Allora hai fatto del male!" esclamò la madre dei venti.
"Il bene che ho fatto lo racconteranno gli altri!" rispose il vento.
"Ma ecco che sta arrivando mio fratello di Ponente, è quello con cui mi trovo meglio, sa di mare e porta con sé una bella frescura." "E' il piccolo Zefiro?" domandò il principe.
"Sì, è Zefiro" rispose la vecchia, "ma non è più così piccolo. Molto tempo fa era proprio un bel ragazzino, ma ora sono passati quei tempi!" Aveva un aspetto selvaggio, si proteggeva le testa con un cercine e in mano aveva un bastone di mogano preso nelle foreste americane. Non ci si poteva aspettare di meno!
"Da dove vieni?" gli chiese sua madre.
"Dalle foreste vergini!" rispose. "Dove le liane piene di spine si avvolgono tra gli alberi, dove il serpente d'acqua è nascosto tra l'erba e dove gli uomini sono di troppo!" "Che cos'hai fatto lì?" "Ho visto un fiume profondo che si gettava da una roccia e si trasformava in pulviscolo risalendo verso le nuvole, per reggere l'arcobaleno. In quel fiume ho visto nuotare il bufalo selvaggio e ho visto la corrente che lo travolgeva: inseguiva uno stormo di anatre selvatiche, ma queste si alzarono in volo quando l'acqua precipitò, il bufalo invece cadde giù: è stato proprio bello! Poi mi misi a soffiare una tale tempesta che gli alberi secolari si sradicarono e si spezzarono." "Non hai fatto altro?" chiese la vecchia.
"Ho fatto le capriole nelle savane, ho accarezzato i cavalli selvaggi e ho scosso le palme da cocco! Certo: ne ho di storie da raccontare!
Ma non si deve dire tutto quello che si sa. Lo sai anche tu, vecchia mia" e intanto baciò sua madre che quasi la fece cadere a terra; era proprio un ragazzo selvaggio.
Poi giunse il vento del Sud, col turbante e un mantello da beduino che svolazzava.
"Fa veramente freddo qua dentro!" disse, e aggiunse legna al fuoco.
"Si capisce subito che il vento del Nord è già arrivato." "Adesso fa talmente caldo che si potrebbe arrostire un orso bianco!" ribatté il vento del Nord.
"Tu sei un orso bianco!" replicò il vento del Sud.
"Volete finire nel sacco?" chiese la vecchia. "Siediti su quella pietra e racconta dove sei stato." "In Africa, mamma" rispose. "Sono stato con gli ottentotti a cacciare il leone, nel paese dei cafri. Che erba cresce su quelle pianure!
verde come le olive. L'antilope ha danzato e lo struzzo ha gareggiato con me, ma io sono stato più veloce. Mi sono spinto fino al deserto giallo di sabbia: sembra il fondo del mare. Ho incontrato una carovana: stavano ammazzando il loro ultimo cammello per avere un po' d'acqua da bere, ma ce n'era molto poca. Il sole ardeva in alto e la sabbia bruciava in basso. Il deserto era senza confini. Allora mi sono rotolato tra quella sabbia sottile e leggera, sollevandola. Avresti dovuto vedere come si piegava il dromedario e come il commerciante si tirava il caffettano sul capo! Si è gettato a terra di fronte a me come se fossi stato Allah, il suo Dio. Ora sono seppelliti là, c'è una piramide di sabbia sopra di loro; quando un giorno la soffierò via, il sole imbiancherà le loro ossa e i viandanti vedranno che lì c'erano già stati altri uomini prima di loro. Altrimenti non ci si potrebbe credere, nel deserto!" "Allora hai fatto soltanto del male!" disse la madre. "Fila nel sacco!" e prima che lui se ne accorgesse, era già stato afferrato alla vita e messo nel sacco. Questo rotolò sul pavimento, ma la vecchia ci si sedette sopra e così si dovette calmare.
"Avete proprio dei bravi ragazzi!" disse il principe.
"Insomma!" rispose la vecchia, "ma io so farli rigare dritto! Ecco che arriva il quarto!" Era il vento dell'Est, abbigliato come un cinese.
"Ah, vieni da quella parte!" disse la madre. "Credevo che fossi stato nel paradiso terrestre." "No, ci vado domani!" rispose il vento dell'Est. "Domani scadono cento anni dall'ultima volta. Adesso vengo dalla Cina, dove ho ballato intorno alla torre di porcellana, affinché tutte le campane suonassero. Per la strada i funzionari venivano colpiti sulla schiena con canne di bambù; erano tutti funzionari dal primo al nono grado e gridavano: "Molte grazie, mio paterno benefattore!", ma non pensavano certo niente del genere, io intanto facevo suonare le campane e cantavo tsing, tsang, tsu!".
"Sei troppo vivace!" disse la vecchia. "Per fortuna domani andrai al paradiso terrestre, e ti farà bene all'educazione! Bevi molto alla fonte della saggezza e portane una bottiglietta pure per me." "Lo farò!" rispose il vento dell'Est. "Ma perché hai chiuso mio fratello del Sud dentro al sacco? Liberalo! Mi deve raccontare dell'araba fenice. La principessa del paradiso terrestre vuole sempre sentir parlare di quell'uccello, quando le vado a farle visita ogni cento anni. Apri il sacco! Sei la mia cara mamma e ti regalerò due tasche piene di tè, verde e fresco, raccolto proprio sul posto!" "Aprirò il sacco solo per il tè e perché sei il mio prediletto!" Così fece e il vento del Sud tornò fuori, ma era molto abbattuto perché quel principe straniero aveva assistito a tutto.
"Eccoti qui una foglia di palma per la principessa!" disse. "Me l'ha data la vecchia araba fenice, la sola che c'era al mondo; col becco ci ha inciso tutta la storia della sua vita, dei cento anni che è vissuta. Così lei potrà leggersela da sola. Io stesso ho visto l'araba fenice appiccare il fuoco al suo nido, posarcisi sopra e bruciare, come una donna indiana. Come crepitavano i rami secchi, che fumo e che profumo! Alla fine ci fu una grande fiammata e la vecchia araba fenice diventò cenere, ma il suo uovo brillò incandescente sul fuoco, poi si aprì con un gran fragore e ne uscì il figlio, che ora è re di tutti gli uccelli: è l'unica araba fenice che esiste al mondo. Lui stesso ha fatto un buco nella foglia che ti ho dato, è un piccolo saluto per la principessa." "Adesso però dobbiamo mangiare qualcosa!" intervenne la madre dei venti, e così tutti sedettero a mangiare il cervo arrostito; il principe si mise accanto al vento dell'Est e subito diventarono buoni amici.
"Raccontami un po'" gli disse, "che principessa è quella di cui parlate tanto, e dove si trova il paradiso terrestre?".
"Oh!" disse il vento dell'Est, "se ci vuoi andare puoi venire con me domani. Ma devo avvertirti che non c'è più stato nessun altro uomo dopo Adamo e Eva. E quelli li conoscerai di certo dalla Bibbia!" "Certo!" rispose il principe. "Quando vennero cacciati, il paradiso terrestre precipitò sulla terra, ma conservò il sole caldo, l'aria mite e tutte le sue meraviglie. Ci abita la regina delle fate, nell'isola della beatitudine dove la morte non arriva mai; è proprio bello starci! Domani siediti sulla mia schiena e io ti porterò con me:
credo che si possa fare. Ma adesso smettila di parlare, perché voglio dormire".
E così tutti dormirono.
Nelle prime ore del mattino il principe si svegliò e rimase non poco stupito vedendo che era già in alto sopra le nuvole. Era seduto sulla schiena del vento, che lo teneva ben saldo; erano così in alto che i boschi, i fiumi e i laghi apparivano come su una carta geografica illuminata.
"Buon giorno!" disse il vento dell'Est. "Potevi anche dormire un po' di più, non c'è granché da vedere nel paese che c'è sotto di noi. A meno che tu abbia voglia di contare le chiese: sembrano macchie di gesso sulla tavola verde". Quello che lui chiamava tavola verde erano in realtà prati e campi.
"E' stato scortese che io non abbia salutato tua madre e i tuoi fratelli!" esclamò il principe.
"Quando si dorme non si ha colpa" rispose il vento dell'Est, e volò in fretta più di prima. Lo si poteva sentire dalle cime dei boschi:
quando si sfioravano, i rami e le foglie frusciavano; e lo si poteva capire dal mare e dai laghi: dove passavano loro, le onde si ingrossavano e le grosse navi si piegavano verso l'acqua, come cigni che nuotino.
Verso sera, quando fece buio, fu divertente guardare le grandi città; le luci brillavano un po' qua e un po' là, come quando si brucia un pezzo di carta e si vedono tante piccole scintille di fuoco scomparire, simili ai bambini che escono da scuola. Il principe batté le mani, ma il vento dell'Est gli chiese di non farlo, e di tenersi ben saldo, perché altrimenti avrebbe potuto cadere e rimanere appeso alle guglie di qualche chiesa.
L'aquila vola leggera nel bosco scuro, ma il vento dell'Est volava ancora più leggero. Il cosacco cavalca veloce le pianure sul suo cavallino, ma il principe cavalcava in modo ben diverso.
"Ora puoi vedere l'Himalaja!" esclamò il vento dell'Est. "la montagna più alta dell'Asia; tra poco saremo al paradiso terrestre".
Si diressero verso sud e subito sentirono un profumo di aromi e di fiori. I fichi e i melograni crescevano liberamente e l'uva aveva grappoli rossi e blu. I due scesero e si sdraiarono sull'erba tenera, dove i fiori si inchinavano al vento come se avessero voluto dire:
"Bentornato!".
"Siamo nel paradiso terrestre?" domandò il principe.
"Certo che no!" rispose il vento dell'Est, "ma ci saremo presto. Vedi quella parete di roccia e quella grossa grotta, dove i tralci di vite pendono come grandi tende verdi? E' là in mezzo che dobbiamo passare.
Avvolgiti bene nel mantello, qui il sole è caldo, ma tra un passo ci sarà un freddo polare. L'uccello che passa davanti alla grotta ha un'ala nella calda estate e l'altra nel freddo inverno".
"E' quella la strada per il paradiso terrestre?" chiese il principe.
Entrarono nella grotta, uh, che freddo faceva! Ma non durò a lungo. Il vento dell'Est distese le ali che brillarono come il fuoco più lucente; che grotta! Grossi massi di pietra, da cui gocciolava l'acqua, pendevano sopra di loro nelle forme più strane; ogni tanto era così stretto che erano costretti a camminare a quattro zampe, altre volte così alto e ampio che sembrava d'essere all'aria aperta.
Pareva di essere in una cappella funebre, con canne d'organo mute e stendardi pietrificati!
"Passiamo per la strada della morte per arrivare al paradiso terrestre?" domandò il principe, ma il vento non rispose, e fece segno davanti a loro: una meravigliosa luce azzurra veniva loro incontro, i massi di pietra si trasformavano sempre più in nebbia, e alla fine diventarono trasparenti come una nuvola bianca alla luce della luna.
Ora si trovavano immersi in un'aria mite e trasparente, fresca come sulle montagne e profumata come vicino alle rose della valle.
Scorreva un fiume, trasparente come l'aria stessa, e i pesci erano d'oro e d'argento; anguille color porpora, che a ogni guizzo sprizzavano scintille azzurre, giocavano sott'acqua, le larghe foglie della ninfea avevano i colori dell'arcobaleno, il fiore era una fiamma rosso-gialla ardente che l'acqua alimentava, come l'olio alimenta la lampada! Un ponte di marmo ben saldo, ma intagliato così finemente e con tale arte da sembrare fatto di pizzi e perle, portava all'isola della beatitudine, dove fioriva il paradiso terrestre.
Il vento prese in braccio il principe e lo portò dall'altra parte. Lì i fiori e le foglie cantavano le più deliziose canzoni della sua infanzia, ma con una dolcezza tale, che nessuna voce umana può avere.
Erano palme e gigantesche piante acquatiche quelle che crescevano?
Alberi così grandi e rigogliosi il principe non ne aveva mai visti!
Stranissime piante rampicanti pendevano in lunghe corone, come quelle che si trovano raffigurate a vari colori e in oro sul margine di vecchi libri di santi, o intrecciate con le lettere iniziali. Era uno strano insieme di uccelli, fiori e ghirigori. Nell'erba folta c'era un gruppo di pavoni con le code tese che luccicavano. Davvero! Quando il principe li toccò, capì che non erano animali, ma piante; enormi piante di farfaraccio che brillavano come fossero state bellissime code di pavoni. Il leone e la tigre balzarono, come agili gatti, tra i verdi cespugli che odoravano come i fiori dell'olivo; sia il leone che la tigre erano mansueti; la colomba selvatica brillava come la perla più bella e frullava le ali sulla criniera del leone; l'antilope, che di solito è molto timida, faceva cenno col capo, come avesse voluto giocare anche lei.
Poi arrivò la fata del paradiso terrestre; i suoi abiti splendevano come il sole e il suo viso era dolce, come quello di una madre che è felice per il suo bambino. Era così giovane e bella, ed era accompagnata da fanciulle bellissime, ognuna con una stella che splendeva tra i capelli.
Il vento dell'Est le diede la foglia scritta dall'araba fenice, e i suoi occhi brillarono di gioia. Prese per mano il principe e lo portò nel suo castello, dove le pareti avevano i colori dei più bei petali di tulipani messi contro sole, e il soffitto stesso era un enorme fiore luminoso, e più lo si guardava, più il calice sembrava profondo.
Il principe andò alla finestra e guardò fuori; vide così l'albero della conoscenza, con il serpente, e lì accanto, Adamo ed Eva. "Non sono stati cacciati?" chiese, e la fata sorrise e gli spiegò che il tempo aveva impresso a fuoco, su ogni finestra, un'immagine ma non come siamo abituati a vedere noi; in quelle c'era vita, le foglie degli alberi si muovevano e gli uomini andavano e venivano, come in uno specchio. Egli guardò allora in un'altra finestra, e vide il sogno di Giacobbe, con la scala che conduceva fino al cielo e gli angeli che volavano su e giù con le loro grandi ali. Sì, tutto quanto era avvenuto nel mondo viveva là e si muoveva nei vetri delle finestre; solo il tempo aveva potuto imprimervi immagini così splendide!
La fata sorrise e lo condusse in un salone, ampio e molto alto, le cui pareti sembravano vetrate trasparenti, istoriate con volti uno più bello dell'altro. Lì c'erano milioni di beati, che sorridevano e cantavano, e tutto andava a formare un'unica melodia; quelli più in alto erano così lontani che apparivano più piccoli del più piccolo bocciuolo di rosa che si può disegnare come un punto sulla carta. In mezzo al salone c'era un grande albero con rami carichi di foglie; mele dorate, grandi e piccole, comparivano come arance tra le foglie verdi. Questo era l'albero della conoscenza, di cui Adamo ed Eva avevano mangiato il frutto. Da ogni foglia pendeva una lucente goccia rossa di rugiada: era come se l'albero versasse lacrime di sangue.
"Saliamo sulla barca!" disse la fata, "ci rinfrescheremo, abbandonati alle onde! La barca dondola, ma non si sposta, eppure tutti i paesi del mondo sfileranno davanti ai nostri occhi". Era proprio strano vedere come tutta la costa si muoveva. Giunsero le alte Alpi coperte di neve, con grosse nuvole e neri abeti, il corno risuonava malinconico e il pastore cantava allegramente lo jodel verso la valle.
Poi vide i banani piegare i loro lunghi rami carichi verso la barca; cigni neri come il carbone nuotavano e sulla riva si trovavano gli animali e i fiori più strani. Era la Nuova Zelanda, la quinta parte del mondo, che passava davanti a loro, mostrando le sue montagne azzurre. Si udiva il canto della principessa e si vedevano le danze dei selvaggi al suono del tamburo e delle trombe di osso. Le piramidi dell'Egitto, che arrivavano fino alle nuvole, passarono di lì, e con loro colonne e sfingi crollate, semisommerse dalla sabbia. L'aurora boreale brillava sui vulcani del Nord, era un fuoco d'artificio impossibile da imitare. Il principe era cosi felice, e vide cento volte più cose di quelle che vi abbiamo raccontato.
"Posso restare qui per sempre?" chiese.
"Dipende da te! Se non ti lasci tentare, come Adamo, a fare quello che è vietato, potrai restare qui".
"Non toccherò le mele dell'albero della conoscenza" disse il principe.
"Qui ci sono migliaia di altri frutti belli come quelle!".
"Guarda in te stesso: se non sei abbastanza deciso, riparti con il vento dell'Est che ti ha portato fin qui; lui ora riparte e tornerà soltanto tra cento anni; cento anni che passeranno per te in questo luogo come fossero solamente cento ore, ma è comunque un periodo lungo per la tentazione e il peccato. Ogni sera, quando me ne andrò, ti dirò: "Seguimi!", e ti farò cenno con la mano, ma tu non dovrai seguirmi. Non venire con me, altrimenti a ogni passo il tuo desiderio diventerà sempre più grande; arriverai nella sala dove cresce l'albero della conoscenza; io dormo sotto i suoi rami pendenti pieni di profumo. Tu ti chinerai su di me e io ti sorriderò, ma se tu mi bacerai sulla bocca, il paradiso terrestre sprofonderà nella terra e tu lo perderai. Il vento tagliente del deserto ti avvolgerà, la fredda pioggia ti bagnerà i capelli. Dolore e tribolazione saranno tutto il tuo avere!" "Resto qui! " esclamò il principe, e il vento dell'Est lo baciò in fronte dicendo: "Sii forte, e ci rivedremo tra cento anni! Addio, addio!" e allargò le grandi ali, e queste luccicarono come il grano durante il raccolto, o come l'aurora boreale nel freddo inverno.
"Addio, addio!" rieccheggiò tra i fiori e gli alberi. Le cicogne e i pellicani volarono in fila, come nastri svolazzanti, e lo accompagnarono fino al confine del paradiso terrestre.
"Ora avranno inizio le danze!" disse la fata, "alla fine, quando ballerò con te, vedrai che al calar del sole ti farò cenno e ti dirò:
"Seguimi!", ma tu non farlo. Per cento anni ogni sera dovrò ripeterti questo invito, e ogni volta che supererai la prova diventerai più forte, e alla fine non ti costerà nulla. Questa sera sarà la prima volta, ti ho avvisato!" La fata lo portò in un salone colmo di bianchi gigli trasparenti, i cui gialli pistilli erano arpe dorate che emettevano i suoni degli strumenti a corda e dei flauti. Fanciulle bellissime, agili e leggere, vestite di veli fluttuanti che lasciavano vedere quei corpi deliziosi, si libravano nella danza e cantavano che la vita era bella, e che non volevano morire, e che il paradiso terrestre sarebbe sempre rimasto in fiore.
Il sole tramontò e il cielo divenne tutto d'oro, i gigli brillarono come le rose più belle e il principe bevve il vino spumeggiante, che le fanciulle gli porgevano: sentì un senso di beatitudine, come non aveva mai provato prima. Vide che il fondo della sala si apriva e l'albero della conoscenza appariva in tutto il suo splendore, abbagliando la vista del principe; dall'albero veniva un canto dolce e meraviglioso, che aveva la voce di sua madre, e gli parve che cantasse: "Bambino mio! mio amato figlio!".
In quel momento la fata gli fece cenno e gli gridò amabilmente:
"Seguimi! Seguimi!". Si precipitò da lei, dimenticando la sua promessa; la dimenticò già la prima sera, quando la fata gli sorrise e gli fece cenno. Il profumo, quel profuno intenso che lo circondava, si fece ancora più forte, le arpe suonavano in modo ancor più delizioso e sembrò che milioni di volti sorridessero nel salone dove l'albero cresceva, si dondolava e cantava: "Bisogna conoscere tutto! L'uomo è il signore della Terra!". E non erano più lacrime di sangue, quelle che cadevano dalle sue foglie, erano per lui rosse stelle luminose.
"Seguimi! Seguimi!" risuonava la tremula melodia, e a ogni passo le guance del principe si infuocavano sempre più e il sangue circolava più veloce. "Devo andare!" disse, "non è peccato, non può esserlo!
Perché non seguire la bellezza e la gioia ? Voglio vederla dormire.
Nulla è perduto, se non la bacio, e io non la bacerò, sono forte, ho una volontà risoluta." La fata gettò il suo abito splendente, e piegò verso di sé i rami che subito la nascosero.
"Non ho ancora peccato!" esclamò il principe, "e neppure lo farò!" e intanto scostò i rami: lei dormiva già, bellissima, come solo una fata del paradiso terrestre può esserlo, e sorrideva nel sogno; lui si chinò verso di lei e vide che le lacrime le tremavano sulle ciglia.
"Piangi per me?" sussurrò, "non piangere, bella creatura! Solo adesso comprendo la felicità del paradiso terrestre, mi scorre nel sangue, nei pensieri, sento nel mio corpo terreno la forza dei cherubini e la vita eterna. Che la notte eterna mi prenda! Voglio vivere ancora un attimo di questa ricchezza ! " e baciò le lacrime che erano su quegli occhi, e la sua bocca toccò quella di lei...
Risuonò un fragore di tuono, profondo e terribile, come mai nessuno aveva udito, e tutto precipitò: la bella fata, il paradiso fiorito sprofondarono, sprofondarono tanto che il principe li vide sparire nella nera notte; poi brillarono lontanissimo, come una piccolissima stella. Il freddo della morte gli trapassò il corpo, egli chiuse gli occhi e giacque a lungo, come morto.
La fredda pioggia gli cadde sul viso, il vento tagliente soffiò su di lui, allora riprese conoscenza. "Che cosa ho fatto!" sospirò, "ho peccato, come Adamo! Ho peccato, così il paradiso terrestre è sprofondato!" Aprì gli occhi, ancora vedeva quella lontanissima stella, che splendeva come il paradiso perduto; era la stella del mattino nel cielo.
Si alzò e si trovò nel grande bosco, vicino alla grotta dei venti, e la madre dei venti era seduta accanto a lui: arrabbiata, agitava le braccia in aria.
"Già la prima sera!" disse, "lo sapevo! Se tu fossi mio figlio, ti metterei nel sacco!" "Finirà proprio lì!" disse la morte, che era un vecchio robusto con una falce in mano e grandi ali nere. "Lo metterò in una bara, ma non subito; gli farò un segno e lo lascerò vagare per il mondo un po' di tempo, per espiare il suo peccato e per diventare migliore. Quando meno se lo aspetterà, lo metterò nella bara nera, me lo poserò sulla testa e volerò verso la stella; anche là sopra fiorisce il paradiso terrestre, e se lui sarà buono e pio, potrà entrarci, se invece i suoi pensieri saranno cattivi e il suo cuore ancora colmo di peccato, sprofonderà con la bara ancora più in basso del paradiso terrestre, e solo ogni cento anni andrò a prenderlo per vedere se dovrà sprofondare di più o se potrà andare sulla stella, su quella stella che brilla lassù!".
 
 
 
L'USIGNOLO  
In Cina, lo sai bene, l'imperatore è un cinese e anche tutti quelli che lo circondano sono cinesi. La storia è di parecchi anni fa, ma proprio per questo vale la pena di ascoltarla, prima che venga dimenticata. Il castello dell'imperatore era il più bello del mondo, tutto fatto di porcellana finissima, molto costosa ma talmente fragile e delicata, che, toccandola, occorreva fare molta attenzione. Nel giardino si trovavano i fiori più meravigliosi, e a quelli più belli erano state attaccate campanelline d'argento che suonavano cosicché nessuno passasse di lì senza notare quei fiori. Sì, tutto era molto ben progettato nel giardino dell'imperatore che si estendeva talmente che neppure il giardiniere sapeva dove finisse. Se si continuava a camminare, si giungeva in un bosco splendido con alberi altissimi e laghetti profondi. Il bosco finiva vicino al mare, azzurro e profondo; grandi navi potevano navigare fin sotto i rami del bosco e tra questi viveva un usignolo, e cantava in modo così meraviglioso che persino il povero pescatore, che aveva tanto da faticare, udendolo cantare si fermava ad ascoltarlo, quando di notte era fuori a tendere le reti da pesca. "Oh, Signore, che bello!" diceva, poi doveva stare attento al suo lavoro e dimenticava l'uccello. Ma la notte successiva, quando questo ancora cantava, il pescatore che usciva con la barca, esclamava: "Oh, Signore, che bello !".
Nella città dell'imperatore arrivavano stranieri da ogni parte del mondo, per ammirare la città stessa, il castello e il giardino; quando però udivano l'usignolo, tutti dicevano: "Questa è la più grande meraviglia!".
I viaggiatori poi, una volta tornati a casa, raccontavano tutto, e le persone istruite scrissero molti libri sulla città, sul castello e sul giardino, ma non dimenticarono mai l'usignolo; anzi, l'usignolo veniva prima di tutto il resto, e quelli che sapevano scrivere poesie scrissero i versi più belli sull'usignolo del bosco, vicino al mare profondo.
Quei libri fecero il giro del mondo e alcuni giunsero fino all'imperatore. Seduto sul trono d'oro, leggeva continuamente, facendo ogni momento cenni di approvazione col capo, perché gli piaceva ascoltare le splendide descrizioni della città, del castello e del giardino. "Ma l'usignolo è la cosa più bella" c'era scritto.
"Che cosa?" esclamò l'imperatore. "L'usignolo? Non lo conosco affatto!
Esiste un tale uccello nel mio regno, e per giunta nel mio giardino!
Non l'ho mai saputo! E devo leggerlo per saperlo!" Così chiamò il suo luogotenente che era così distinto che, se qualcuno inferiore a lui osava rivolgergli la parola o domandargli qualcosa, non diceva altro che: "P...!", il che non vuol dire nulla.
"Qui ci dovrebbe essere un uccello meraviglioso chiamato usignolo" spiegò l'imperatore. "Si dice che sia la massima meraviglia del mio grande regno. Come mai nessuno me ne ha parlato?" "Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora" rispose il luogotenente, "non è mai stato introdotto a corte".
"Voglio che venga qui stasera a cantare per me" concluse l'imperatore.
"Tutto il mondo sa quello che possiedo e io non lo so!".
"Non l'ho mai sentito nominare prima d'ora!" ripeté il luogotenente "farò in modo di trovarlo".
Ma dove? Il luogotenente corse su e giù per le scale e attraversò saloni e corridoi, nessuno di quelli che incontrava aveva mai sentito parlare dell'usignolo, così il luogotenente tornò di corsa dall'imperatore e gli disse che doveva essere un'invenzione di chi aveva scritto i libri.
"Sua Maestà Imperiale non deve credere a quello che si scrive! E' certamente un'invenzione fatta con quella che chiamano magia nera".
"Ma quel libro dove l'ho letto" disse l'imperatore, "mi è stato mandato dal potente imperatore del Giappone, perciò non può essere falso. Voglio sentire quell'usignolo! Dev'essere qui stasera! Sarà ammesso nelle mie grazie! Se invece non viene, tutta la corte verrà picchiata sulla pancia dopo cena!" "T'sing-pe!" rispose il luogotenente e ricominciò a correre su e giù per le scale, e attraverso saloni e corridoi, e metà della corte correva assieme a lui, dato che non volevano essere picchiati sulla pancia. Si sentiva chiedere soltanto dello straordinario usignolo che tutto il mondo conosceva tranne quelli della corte.
Alla fine trovarono una povera fanciulla in cucina che disse: "O Dio!
L'usignolo: lo conosco, e come canta bene. Ogni sera ho il permesso di portare un po' di avanzi a casa, alla mia povera mamma malata che vive giù vicino alla spiaggia, e quando al ritorno, stanca, mi fermo a riposare nel bosco, sento cantare l'usignolo. Mi vengono le lacrime agli occhi, è come se la mia mamma mi baciasse!" "Povera sguattera" esclamò il luogotenente, "ti darò un posto fisso in cucina e ti permetterò di assistere al pranzo dell'imperatore se ci porterai dall'usignolo, dato che è stato convocato per stasera." Così tutti andarono verso il bosco, dove solitamente cantava l'usignolo; c'era mezza corte. Sul più bello una mucca si mise a muggire.
"Oh!" dissero i gentiluomini di corte, "eccolo! C'è una forza straordinaria in una bestia così piccola, certo l'ho sentita prima!".
"No! Sono le mucche che muggiscono" spiegò la piccola sguattera, "siamo ancora lontani".
Allora le rane gracidarono ?nll??st  
 
 
LA PRINCIPESSA SUL PISELLO  
C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa.
Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere principesse; infatti c'era sempre qualcosa che andava storto. Così se ne tornò a casa ed era veramente molto triste, perché desiderava con tutto il cuore trovare una vera principessa.
Una sera c'era un tempo bruttissimo, lampeggiava e tuonava, la pioggia cadeva a catinelle, che cosa terribile! Bussarono alla porta della città e il vecchio re andò ad aprire.
Là fuori c'era una principessa. Ma com'era conciata con quella pioggia e quel brutto tempo! L'acqua le scorreva lungo i capelli e i vestiti e le entrava nelle scarpe dalla punta e le usciva dai tacchi; eppure sosteneva di essere una vera principessa.
"Adesso lo scopriremo!" pensò la vecchia regina, ma non disse nulla, andò nella camera da letto, tolse tutte le coperte e mise sul fondo del letto un pisello, sopra il quale pose venti materassi e poi venti piumini.
Lì doveva passare la notte la principessa.
Il mattino successivo le chiesero come aveva dormito.
"Oh, terribilmente male" disse la principessa, "non ho quasi chiuso occhio tutta la notte. Dio solo sa, che cosa c'era nel letto! Ero sdraiata su qualcosa di duro, e ora sono tutta un livido. E' terribile!".
Così poterono constatare che era una vera principessa, perché attraverso i venti materassi e i venti piumini aveva sentito il pisello. Nessuno poteva essere così sensibile se non una vera principessa!
Il principe la prese in sposa, perché ora sapeva di aver trovato una principessa vera, e il pisello fu messo nella galleria d'arte, dove ancor oggi si può ammirare, se nessuno l'ha preso.
Bada bene, questa è una storia vera!

Fiabe scelte di Hans Andersen  

 
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