C'era una volta
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Chi corre dietro alla Fortuna e chi l'aspetta in letto  

 
Ognun si affanna a correre sull'orme della Fortuna, inutilmente. In luogo esser vorrei dove la turba passa di questi irrequïeti cortigiani, che la Diva volubile del caso di terra in terra inseguono e sul punto d'afferrarne la chioma, ecco, si scioglie dalle mani il fantasma agile e sfuma.

Povera gente! io la compiango. I matti chiedon pietà, non ira. - E perché dunque, - dicon costor, - se altri ha potuto un giorno lasciar la zappa ed i piantati cavoli, e sul trono salir di Santa Chiesa, non io potrò lo stesso? e non son io forse da tanto? - Anzi tu sei, - rispondo, - più degno ancor, ma la virtù non vale, se la cieca Fortuna anche non giova.

E quando pur tu diventassi il papa di Santa Chiesa, amico, e ti lusinghi che valga la tïara il bel riposo che tu perdi per via? dolce riposo, che fu prezioso dono anche agli Dèi, e che mal si accompagna alla fortuna? O ciechi, il tanto affaticar che giova? Fortuna e dormi, e se Fortuna è donna, quantunque dea, verrà ben da se stessa, come vuole il suo sesso, a ricercarti -.

Furon due buoni amici in un villaggio, che possedevan qualche terra al sole. L'uno sempre in sospiri ed in corruccio colla Fortuna, un dì fe' la proposta al suo compagno di lasciar il borgo natio, dove nessun nasce profeta, e di cercar lontan nuove avventure.

- Va' pur, - disse costui, - se la ti gira, per me sto a casa mia comodo e cheto e non cerco altro ciel, altro emisfero. Qui spero di dormir fino a quel giorno che ti vedrò tornato; or dunque addio -.

Parte l'amico ambizïoso (forse più avaro ancor), e va per monti e valli, infin che arriva ove la dea bizzarra facea suoi giochi, più che altrove, in Corte.

Ivi stette un buon pezzo il cortigiano attento all'ore più propizie, pronto al mattutin omaggio, pronto all'ora della mensa regale, ed alla sera; ma non gli cadde in bocca una nocciòla.

- Che significa ciò? - disse. - Quest'aria non è per me. Cerchiam altro paese. Ben veggo la Fortuna innanzi e indietro correr le sale e aprir la porta a questo, ed ora a quello, e a me la capricciosa non guarda in viso. Aver troppe superbe idee pel capo nuoce ai cortigiani abitatori delle illustri sale.

Signori e Corte, io vi saluto, addio. A voi lascio inseguir questo fantasma che fa di luminello, e poi che sento che Fortuna ha divoti santuari verso Calcutta, in pio pellegrinaggio andrò laggiù -. Ciò detto, ecco s'imbarca e solca il mar. Oh! ben ebbe di bronzo il petto, ed ebbe adamantino usbergo, colui che primo osò sfidar l'abisso e le mobili vie dell'Oceàno.

Al nostro pellegrin tornò la dolce memoria del natìo suo paesello, quando fra venti, e scogli e fra ladroni, nella gran solitudine dell'acque danzar vicino a sé vide la Morte.

Giunto a Calcutta, ascolta che Fortuna era andata al Giappone ed ei vi corre, e corre tanto che a portarlo i mari erano stanchi. Ancor tutto il vantaggio ch'ei ne trasse fu quel che in un proverbio selvaggio è detto: "O di natura esperto, statti a ca' tua". Pel nostro vagabondo non fu di grazie Jeddo generosa più di Calcutta, ed ei ne venne al conto che il mondo non valea del suo tranquillo villaggio la casetta. E torna e piange di conforto a veder la vecchia casa e - Beato, - ripete, - o veramente beato l'uom, che del suo nido all'ombra i desideri suoi frena e corregge.